L’ultima spiaggia

Di una sola cosa possiamo rammaricarci riguardo al nuovo governo: che non sia stato formato all’inizio della legislatura, quando l’esito elettorale già lasciava intendere gli sviluppi successivi, evitandoci le tristi esperienze del governo giallo-verde e poi di quello giallo-rosso. L’Italia già allora, ben prima della pandemia, avrebbe avuto bisogno di un governo autorevole e credibile in Europa. Invece abbiamo perso un anno per verificare il fallimento delle forze sovraniste-populiste, preminenti nel confronto elettorale, e altro tempo prezioso col secondo governo Conte, ostaggio di quel che restava del populismo grillesco. Pressati dalla crisi economica e sociale oltre che sanitaria, e allettati dai finanziamenti europei, finalmente i partiti hanno accantonato le velleità ideologiche e, incuranti del “tradimento” delle promesse fatte ai loro elettori, pragmaticamente, dimostrando un sano realismo, hanno accettato le indicazioni del Presidente della Repubblica per la formazione di un governo di coalizione nel quale i ministeri più importanti sono stati affidati a tecnici di sicura competenza. A cominciare dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, del quale molti da tempo auspicavano la discesa in campo. Ma anche i politici non sono figure di secondo piano; tra questi spicca Giorgetti, testa pensante della Lega, accorto regista della svolta europeista del partito; svolta che permetterà alla Lega di governare, qualora dovesse vincere le elezioni in occasione della prossima tornata elettorale. Importante, da questo punto di vista, pure il sostegno al nuovo governo garantito da Berlusconi, entusiasta della svolta, mentre la Meloni si è ritagliata il ruolo di unica oppositrice, una scelta che forse le farà guadagnare qualche voto, destinato però a restare nel congelatore. Forte è l’impronta “nordista” del governo, dove prevalgono gli elementi orientati al sostegno del lavoro e della produzione, mentre marginale è la componente legata al “Sussidistan”, dalla mentalità assistenzialista. Il gradimento popolare per il nuovo governo, dai sondaggi, è all’80 per cento, mentre il reddito di cittadinanza è avversato dall’88 per cento. Tutto ciò premesso si dovrebbe voltare pagina, anche se è facile prevedere che Draghi incontrerà mille ostacoli nel tentativo di attuare riforme strutturali, avversate dalle corporazioni, già sul piede di guerra. Probabilmente si limiterà a cercare di spendere bene i fondi europei con l’obiettivo di rilanciare la crescita, unico rimedio per ridurre il peso del debito pubblico, ormai al limite (ma la presenza nel governo dell’ex Ragioniere dello Stato è una sicura garanzia di controllo dei conti pubblici). Molte aspettative forse resteranno quindi deluse, ancora una volta, ma in ogni caso è già un sollievo sapere che a nessuno viene più in mente di uscire dall’euro o addirittura dall’Europa. Salvini deve aver infatti finalmente compreso che i primi a non volere questo esito erano proprio i suoi elettori delle aree del Nord produttivo, i più critici tra l’altro dell’accordo che ha portato al varo del reddito di cittadinanza (da qui il calo di 10 punti percentuali nel gradimento della Lega). In conseguenza della svolta europeista degli ex sovranisti vien meno la necessità di diversificazione valutaria, quindi meno rischi e meno spese per gli investitori che possono tornare con fiducia sul mercato domestico. Anche perché l’area del dollaro è in piena bolla speculativa, come già nelle precedenti crisi, dal momento che vi è una forte divergenza tra economia reale e valutazioni di borsa, come già nel 2000 e nel 2007. Per non parlare poi del Bitcoin, dalle quotazioni stellari (ma più in alto si sale più è dolorosa poi la caduta) o della follia della miriade di piccoli investitori che, seguendo le indicazioni dei social, si buttano a capofitto sulle penny stock (forse non sono mai andati al cinema e non hanno visto quel bel film interpretato da Di Caprio in cui si spiegava il meccanismo di questo gigantesco schema Ponzi). La liquidità creata dal combinato disposto delle politiche monetarie e fiscali produce questi mostri: pare che in America la maggior parte dei sussidi statali sia finita in investimenti speculativi in borsa e solo il 18 per cento sia finito in consumi di beni reali. In attesa che l’inflazione si mangi il resto.