Avere vent'anni

Sto invecchiando. E la scuola, dove per mia fortuna continuo a lavorare, me lo rammenta tutte le mattine. Un po’ perché non ho più i crediti e i benefici comparativi degli esordi: me la ricordo ancora bene – e mi coccolo la rimembranza – la collaboratrice scolastica di Mirandola che mi blandiva con un, forse falso ma gradito, emilianissimo, “oooh, professore, mi scusi se non l’ho salutata prima, ma è così ragazzo, la confondo sempre con gli studenti…”. Un po’ perché ogni anno fanno capolino, nelle sale insegnanti e nei corridoi, colleghi e colleghe under trenta, che fingono il massimo rispetto dandoti quel lei che, invece, da che mondo e mondo, è lo strumento scientifico, a parità di ruoli, per costringerti a prendere atto del solco anagrafico che si sta aprendo fra te e i “giovani”. Un po’, soprattutto, perché mi accorgo che, a valle della maggiore esperienza nell’insegnamento, e dell’affinamento della professionalità, e della superiore capacità, con il trascorrere degli anni, nella gestione dei conflitti, a valle di tutto questo, inutile nasconderlo, faccio sempre più fatica a comprendere linguaggi verbali e non verbali dei miei studenti. Premessa: in giro circola parecchia allerta sugli adolescenti, acerbi e maturi, di questo scorcio di secolo. Il genere letterario “non ci sono più le generazioni di una volta” (che storicamente prende piede, più o meno, in corrispondenza con l’apparizione dei primi ominidi, e che arriva trionfalmente fino ai nostri giorni) si va arricchendo di nuovi spauracchi e allarmismi un tanto al chilo. Ci sono già esperti dalla fatturazione facile in grado di ponderare – beati loro – la ricaduta formativa e soprattutto psicologica (e comportamentale, e valoriale, eccetera eccetera) dei lockdown più o meno integrali che si sono succeduti in questi dodici mesi di egemonia Covid. I social e i mezzi di informazione, da par loro, sproloquiano con voluttà pari solo all’imperizia di gang giovanili (anche a Carpi!) come se fossimo nella Los Angeles dei Bloods e dei Crips, dimenticando (dimenticando?) che solo fino a qualche tempo fa, per dire, in Italia si moriva abbastanza regolarmente di violenza (giovanile) allo stadio, o che negli anni Ottanta (mica durante le invasioni barbariche, negli anni Ottanta) i centri storici delle nostre amene cittadine padane erano per lo più off limits causa balordi, spaccio e compagnia cantante. No, il mio problema non è quello della paura, o dell’insicurezza, a fronte delle presunte orde di guerrieri della notte che popolerebbero le nostre contrade per poi sedersi dietro un banco (o uno schermo di computer) la mattina con chissà quali intenzioni belluine. Il mio assillo è piuttosto la crescente illeggibilità dei pensieri, delle parole, e degli sguardi (e quindi, dietro, dei sentimenti, dei desideri, delle preoccupazioni), dei miei alunni. Perché, è questo il sospetto, in tempi abbastanza recenti si è consumato quel salto di paradigma, quella rottura di faglia, che ogni tanto trasforma il passaggio fra generazioni, fenomeno di per sé meramente meccanico e quantitativo, in qualcosa di qualitativo. Non c’entra, credo, solo il digitale, l’escamotage esplicativo che serve a coloro che hanno fretta per sancire che non c’è pezza, siamo di fronte a un ribaltone antropologico (e cognitivo, e biochimico, e vattelapesca) che rende il dialogo con i teenager l’equivalente, in termini di velleitarismo, delle profferte di amicizia verso i marziani invasori di certi b-movie americani del secolo scorso. Smartphone e like (di cui, pure, mi pare facciamo discreto uso anche noi quaranta-cinquantenni) sono, al massimo, il basso continuo, la colonna sonora, il come, ma non il cosa, di uno scarto esistenziale e culturale di cui, ancora, vediamo più la manifestazione che non la sostanza. Per me le cose stanno così: un ventenne del 2021 è cresciuto vedendo, nel tinello di casa, la replica infinita, ipnotica, dell’Undici Settembre e del crollo delle Torri Gemelle; ha respirato, fin da piccolo, la sindrome da attacco terroristico, a cui si è aggiunto, a partire dal 2008, il mantra della crisi per cui “nulla sarà più come prima” e “questa sarà la prima generazione a vivere peggio dei genitori”; si è beccato, a spanna, ovunque risieda nello stivale, una mezza dozzina fra terremoti pluri-omicidi, esondazioni e fenomeni atmosferici da Giorno del Giudizio (senza considerare la cornucopia degli allarmi maltempo, allarmi calura, allarmi valanghe, e così via); adesso si sorbisce, per tacere d’altro, il Covid con tutte le non lievi implicazioni in materia di debito e di distruzione di posti di lavoro. Mi sa allora che, in attesa di imparare a decodificarlo, devo assumere lo sguardo laterale e sfuggente dei miei indecifrabili studenti come una normalità, e non una stranezza; strani, forse, siamo invece noi che, cresciuti in un mondo cartesiano, dove il futuro si programmava geometricamente, potendoci scommettere sopra con sicumera, ci ostiniamo a tracciare traiettorie rettilinee e a stare dritti anche nel tempo dell’entropia e dell’imprevisto fattosi regola, quando curvare (e curvarsi) è ragionevolmente l’unico modo per non finire, come individui e come comunità, ridicoli, gambe all’aria.