Vecchio a chi? Micromega

Il 7 Aprile ho compiuto cinquant’anni (e qui siamo già all’ottanta, novanta per cento di “chissenefrega”). Ricorrenza liminare, da spartiacque, che avrebbe richiesto e ottenuto, in tempi normali, celebrazioni da bicentenario della Bastiglia. Con il Covid, invece, tutti in casa, abbastanza mesti. È stata la seconda esperienza consecutiva di compleanno in lockdown. Ad Aprile 2020 era prevalso, però, il gusto paradossale della novità (famiglia ristretta, atmosfera intima e calda, in fondo non è male nemmeno così, possiamo essere felici con poco, eccetera). Per i cinquanta, invece, i sorrisi sono stati più simili a spasmi nervosi, gli auguri sussurrati a mo’ di sospiro, e giusto per non farsi mancare nessuna cabala negativa il numero 5 in marzapane issato sulla torta si è spezzato prima del taglio (roba che un aruspice romano c’avrebbe fatto abdicare l’imperatore, come minimo).

Un po’, lo dico a denti stretti, me lo merito. Anni e anni a fare il minimalista guastafeste, ma cosa ci sarà mai da celebrare, non osate farmi delle sorprese, i regali vanno bene per i bambini, e così via, scetticheggiando, e alla fine il contrappasso è stato cucinato e servito. Volevi la festicciola da groppo in gola, stile Germania dell’Est, o film di Kaurismaki, con i famigliari eroicamente impegnati a colorare di entusiasmo uno scenario ingrigito dalla pandemia e dalle restrizioni? Eccoti accontentato. Ovviamente da finto sociopatico quale sono adesso rosico perché mi è toccato sul serio, e non per celia o provocazione, festeggiare – per così dire – il genetliaco in un’atmosfera da comunità puritana del milleseicento e rotti, in cui ridere, ballare, bere è proibito e colpevole. Inutile sottolineare che, il prossimo anno, alla facciazza della reputazione e della morigeratezza dei costumi, se tutto va come deve andare (ripeto, con voce sempre più baritonale, e scongiuri di ogni tipo, se tutto va come deve andare) mi butto nelle fontane e gioco in acqua con le schiume colorate, come se fossi a Ibiza.

Intanto però ho raggiunto, secondo immagine consolidata, non il mezzo del cammino (magari...) ma, diciamo, il valico anagrafico dopo il quale tutto, in positivo e in negativo, dovrebbe andare in discesa. E la prima cosa che mi è venuta in mente – non credo si sia trattato di un’allucinazione personale e originale – è che quando di anni ne avevo dieci (ma anche venti o trenta) mica me li immaginavo così come sono io adesso, i cinquantenni. Per me, da bambino, in generale, gli adulti erano grandi, grandissimi, nel senso che li vedevo alti anche quando non andavano oltre il metro e sessantacinque, e se mi dicevano che uno aveva mezzo secolo di vita alle spalle non potevo raffigurarmelo se non meditabondo sui casi dell’esistenza e buono soprattutto a dispensare suggerimenti e raccomandazioni – anche un po’ pallose e anacronistiche – alle generazioni (figli, nipoti) che stavano fiorendo. Io, insomma, uno con cinquant’anni non me lo immaginavo più in movimento, ma statico, un dagherrotipo, al massimo un’istantanea, di sicuro non un film d’azione.

Adesso che ci sono mani e piedi, su quella soglia, tutto mi appare in straordinaria (e forse un po’ inquietante) continuità con i precedenti tempi della vita, senza cesure, senza salti o sconvolgimenti, sempre e comunque, nel bene e nel male, in movimento, con la giusta dose di irrequietezza e, fiato alle trombe, di apertura al domani.

So benissimo che una cosa è il tempo interiore, che è un flusso, un fiume, sempre uguale e sempre diverso al contempo, e un’altra cosa è il tempo esterno della cronologia, che è una scala a pioli, a gradi e strappi. Quando guardo indietro ai miei cinquant’anni vedo il corso d’acqua, lo scorrere ininterrotto che dissimula il movimento da quando ero in fasce a oggi; quando osservo quelli altrui, vedo balze e pareti scoscese, e adulti che si sono arrampicati, di traguardo in traguardo, fin lì. È sempre stato e sempre sarà così. Una vocina però mi dice che per quelli come me, che sono nati dopo il baby-boom, e dopo, o alla fine, dei “gloriosi venti” del secondo dopoguerra, sui titoli di coda delle sorti magnifiche e progressive del compromesso socialdemocratico e del miracolo economico, ecco, questa vocina mi dice che per quelli come me il non sentirsi compiutamente adulti malgrado i dieci lustri di deambulazione non è solo un errore di prospettiva, perché il tempo interno, continuista, prevale sul tempo oggettivo che passa e non torna. È anche, questo senso di incompiutezza, una piccola-grande strategia di difesa, o di attesa, appunto sulla soglia, perché non è ben chiaro quanto dura, e come sarà, il dopo. Camperemo, virus permettendo e grazie alla medicina, cento, centocinquant’anni? Lo faremo riallineando mente e corpo, o sempre di più i nostri corpi rivitalizzati dalla farmacologia ospiteranno menti usurate dallo scorrere delle stagioni? E cosa faremo, dovremo lavorare, oppure vivere di caccia e raccolta con le proverbiali pensioni insufficienti?

Parlo a titolo personale, ma magari non sono isolato: malgrado qualche acciacco sento di essere ancora un ragazzino, ma non lo faccio apposta, non è sindrome di Peter Pan; giuro che se qualcuno mi spiega dove sono localizzati, oggi, i cinquant’anni, nella mappa della vita, esco dal nido dell’eterna adolescenza, vado, responsabilmente, al mio posto, e mi metto buono. Così, fra l’altro, non scrivo più articoli, felici ma confusi, come questo.