Il suono del silenzio, Micromega

Sarò sincero: stimo Mario Draghi. Non è stato amore a prima vista, quello no, però mi è bastato vederlo all’opera (diciamo vederlo, lasciamo stare l’opera), giusto per un paio di settimane a partire dall’insediamento, per realizzare che sì, dopo tanti presidenti del consiglio meno peggio (Monti meno peggio di Berlusconi, Renzi meno peggio di Monti, Conte meno peggio di Renzi, e Conte due meno peggio di Conte uno, eccetera eccetera), questo è un premier che posso, ostentatamente, elogiare. Oddio, dire in Italia, nel marzo-aprile del 2021, che Mario Draghi è un buon primo ministro è un po’ come esternare sull’inefficienza della burocrazia italiana o sul fatto che non ci sono più le mezze stagioni. Ti trovi in mezzo a una tale maggioranza che ti scatta subito l’eritema da unanimismo, e ti chiedi, essendo in così folta compagnia, e abituato a sostenere sempre delle cause minoritarie, in cosa stai sbagliando. Io però mi sento di garantire la perseveranza di questa stima per Draghi nei tempi a venire, sospettando al contempo che, quando si sarà stemperata la sindrome prov-videnzialistica (quella da super-Mario che risolve tutto, come un Clark Kent, o un Padre Pio, per intenderci), gli Italiani – molti Italiani, almeno – ricominceranno a ruminare contumelie all’indirizzo del governo; non perché cattivo o non abbastanza buono, no, perché governo e basta, che dovrebbe rimuovere, come minimo, i peccati dal mondo, e se non lo fa allora, da inveterata tradizione della penisola, è ladro. Ma cos’è tutta questa tua fregola per Draghi? Si chiederà qualcuno. Ecco, voglio subito sgomberare il campo dagli equivoci. A me il nuovo presidente del consiglio non piace (non piace, no) per quello che ha fatto alla Banca centrale europea. Oddio, gli riconosco tutta la grandezza insita nel whatever it takes, tutta la brillantezza nel perseguire politiche economiche espansive senza essere sfiorato da inflazionismi alla sudamericana, la comprovata fedeltà al progetto monetario ed economico europeo, ci mancherebbe, applausi applausi applausi. Però non è questo che me lo rende accattivante; anche perché – si può dire? – a fianco e dopo i cinici darwinisti sociali, travestiti da banchieri sostenitori dell’austerità, che si ingorillivano nell’immaginare la diffusione del cannibalismo e il fallout demografico presso i pigri popoli euro-mediterranei (Grecia in primis), anche un Croccantino Algida avrebbe fatto, a Francoforte, la figura del keynesiano entusiasta ed empatico.

E neanche, tocca confessarlo, Draghi mi convince per la sua aura politica, per il fatto cioè che con la sola imposizione delle mani è riuscito ad ammansire e ammaestrare il rissoso vaudeville politico italiano, liberando, fra l’altro, preziosi spazi di palinsesto televisivo (da quando il Matteo governista e il Matteo ribellista, divisi alla nascita ma platealmente complementari, hanno impallinato Conte e si sono potuti dedicare alle rispettive passioni, le petromonarchie arabe il primo, la fidanzata e la Nutella il secondo, abbiamo un trenta per cento in più di programmazione tv per film di qualità e approfondimenti). Anche qui chiedo scusa, ma non ce la faccio: maggioranze come quelle che sostengono Draghi si giustificherebbero, forse, a fronte di un attacco da Giove (già per venusiani e marziani potrebbero bastare, nell’ordine, un buon centro-sinistra ovvero un solido centro-destra) e, per quanto mi sforzi di essere patriottico di fronte all’insidia del vaccino, non riesco a rimuovere, in merito alle risorse del Recovery e alla rapidità con cui si è formata l’ammucchiata di governo, l’immagine molto Nat Geo Wild dei licaoni che banchettano, con il favore della notte, sulla carcassa dell’antilope precedentemente azzannata dal grande predatore. No, Mario Draghi mi piace invece perché conferma, con grande autorevolezza, un assunto di metodo che vado sostenendo, da tempo, non ascoltato, in tutti i miei gangli di vita, dalla famiglia alla scuola: mai come oggi, nella società dell’impazzimento comunicativo e del fastidioso rumore di fondo, dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, causato dai social-media, la vera eloquenza consiste e risiede nel silenzio. Esatto. Il silenzio. Il silenzio è tante cose. Il silenzio è rispettoso, e su questo non ci piove. Ma il silenzio è anche sintomo (non importa quanto reale) di misura e ponderatezza, è roba da saggi. Il silenzio, poi, è democratico e costruisce consenso (ciascuno può pensare che tu stia pensando quello che sarebbe opportuno pensare, anche se magari sei lì che ti struggi perché non ricordi il nome del mediano del Cagliari dello scudetto). Il silenzio è, insomma e infine, carismatico, perché mentre tutti spiattellano nell’etere, in ogni modo, le rispettive esistenze, dall’alimentazione alle fantasie sessuali, il silente/silenzioso lascia intendere di avere una vita mentale e materiale privata, là, nei recessi della propria coscienza e del proprio io. In aula, per incuriosire/spaventare gli studenti riottosi, nelle riunioni, per dare sempre l’idea di saperla lunga, a casa, per giocare al patriarca meditabondo, più che un metodo il silenzio sta diventando, per me, un’etica. Adesso lo vedo anche al governo, nelle non-dichiarazioni, non-conferenze stampa, addirittura non-apparizioni di Mario Draghi. Non so quanto durerà. Ma se durerà così, giusto o sbagliato, questo governo sarà, silenziosamente, il mio governo.