Da Davide Nostrini, presidente Italia del Futuro, riceviamo e pubblichiamo.
Cara redazione,
tra eccellenze e crisi, la sospensione del punto nascite di Mirandola è un ulteriore e preoccupante segnale di una sanità emiliana in chiaroscuro. Le eccellenze e la qualità di molte prestazioni specialistiche, non cancellano l'allungamento di diverse liste di attesa, la riduzione di diversi servizi negli ospedali spoke e la mancanza di personale in anestesia ed emergenza-urgenza. Il siatema sanitario, che dal 2001 con la riforma del Titolo V è regionale formalmente, è uno dei migliori d’Italia, ma l’accumularsi di debito strutturale nel dopo covid e la mancanza cronica di personale mette a rischio molti servizi nei prossimi anni.
I punti nascita sono stati negli anni oggetto di numerosi tagli, complice una scarsità di team specializzati, il blocco del turnover e le magre risorse destinate al tema in vista dell’imponente calo demografico. La soglia dei 500 nati l’anno è insormontabile per alcune aree, ma il parametro numerico non tiene conto spesso della predisposizione geografica. La chiusura di un punto nascite, qualora a non più di 25 km n’è predisposto un altro più sicuro, efficiente e con un team preparato anche alle emergenze più gravi, può essere considerata una politica pubblica che unisce sostenibilità economica e qualità del servizio. La chiusura di un punto nascite in zone con pochi servizi e distante dagli ospedali centrali invece risulta una politica discriminante e che impoverisce di molto la qualità delle opportunità di un territorio.
Il discorso applicato ai punti nascita è trasferibile sui reparti di specialità, i pronto soccorsi e tutti i servizi di medicina territoriale. I centri altamente specializzati (Hub) sono fondamentali per la cura di gravi patologie che richiedono nello stesso luogo diversi attori e attrezzature, ma questo non toglie che per effettuare una visita o partorire serva dover fare 50 km o più. Il sistema Hub & Spoke, studiato e applicato precedentemente nei paesi anglosassoni, funziona in presenza di una forte medicina territoriale e di una suddivisione equa delle specialità principali. Modena è lunga, da Finale Emilia a Pievepelago, pensare di accentrare tutto nel capoluogo è un vantaggio per pochi a scapito di molti. La sanità italiana e quella emiliana hanno molto da fare per ri-formarsi e per mantenere quello straordinario principio di civiltà che risiede nell’universalità delle cure. Il bilancio non è infinito, ma non sarà la cessione dei servizi al privato sregolato e i medici a gettone a salvarci. Serve una riforma generale che chiama dentro tutti, dal privato sociale, al terzo settore ad un nuovo pubblico. Il pubblico deve tornare ad essere attrattivo e solo un un’innovazione consolidata che chiama dentro chi non vuole vasche di profitto, può portarci verso una strada sostenibile economicamente, che non demonizza il privato buono e che non dimentica uno dei principi cardine della nostra costituzione: l’art 32.