Le malattie delle coccole, In Cornice del 16 gennaio

Succedeva che, se mi ammalavo, non sempre era una cosa che mi dispiacesse. Non si andava a scuola o, ancor meglio, ai tempi del collegio, venivano chiamati i genitori e venivi spedita a casa. Arrivava, in effetti, la zia Claudia insieme a mia madre che, lei, non ha mai preso la patente ma è stata sempre brava a farsi accompagnare dove fosse necessario o gradevole. Le malattie, allora, erano momenti di vacanza, di sospensione che, di dolore fisico ce n’era poco e non era considerato. In casa, quando ero malata ero coccolata, poi ho capito che poteva anche non essere così automatico e ovvio. Più tardi mi sono stupita quando, con la febbre, venivo spinta ad alzarmi da letto per pranzare a tavola col marito. C’è, infatti chi tende a negare la malattia anche leggera. “Non è niente”. Da adolescente ho avuto la varicella ai tempi delle medie. Così, siccome non potevo vedere il mio morosino, ci si sentiva al telefono, quello nero appoggiato al tavolino del corridoio. Erano lunghe telefonate al freddo e mia madre correva a mettermi un “fissù” (francesismo dialettizzato, da fichu per dire di piccolo manto di lana, ndr) sulle spalle per paura che peggiorassi.

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