La colonia di Panchià

Dopo che Panchià è comparso in una foto di gruppo ho  imparato che anche la Giovanna era stata là. Tra gli effetti  del Coronavirus c’è anche questa rincorsa al “come  eravamo”. Così sono fiorite immagini emerse dalla pulizia dei  cassetti più riposti delle case. Le foto sono per lo più quelle  di fine anno delle scuole frequentate, ma ora cominciano a  comparire nostalgie di colonie marittime o montane. È il gioco  di riconoscersi che intriga. Adesso che non sappiamo neppure  riconoscerci la mattina davanti allo specchio tanto questa  reclusione ci ha cambiati, nella trascuratezza, nei capelli con  ricrescita, nella mancanza di sorriso, nella grassezza. Così è  saltato fuori Panchià. Piccolo paese della val di Fiemme. Ho  sempre considerato quella valle un poco sorella minore di  quella di Fassa frequentata poi a Pozza e tutte una anticamera  della più nobile val Gardena. La casa era, forse, una caserma  dismessa. Sulla strada statale. Come e perché don Vilmo,  rubicondo di faccia, avesse organizzato il soggiorno montano  per bambine non so. Cucina, refettorio, camerata sotto i tetti.  Io e la Gianna abbiamo avuto il privilegio di dormire nella  stanzetta dell’infermeria. Mia mamma avrà fatto sacrifici per  mandarmi visto che erano i tempi bui e non si andava più, d’estate,  al lago di Molveno o di Levico. Lei stessa aveva preparato  la valigia. Quella grossa di cartone nero. Lo posso dire perché  quel coperchio porta ancora, incollato, l’elenco del corredo: tot  di mutande, canottiere, calzetti, eccetera.  Era di sicuro stata lei a cucire le cifre sui capi e distinguo  ancora la sua calligrafia. Le cifre, nastro bianco ricamato di  rosso, si compravano sempre da Ivaldo in corso Fanti e servivano  per non confondere i panni anche in una eventuale lavata  comune che, comunque, non c’era. A quei tempi dovevo avere  le trecce, me le ricordo perché, scherzando, la Gianna me le  tirava facendo la lotta sul prato. Poco c’era da fare se non brevi  passeggiate, una volta di qua e una volta di là. Per fortuna c’era  la merenda ed era una festa sia che ti capitasse il giorno della  cioccolata o quello del formaggino spalmato nella michetta.  Per la passeggiata ci si metteva il fazzoletto in testa, legato  dietro la nuca per non prendere un colpo di sole. Quando, da  grande, sono ripassata per quella strada ho ritrovato l’edificio  sempre uguale, trasformato in albergo e, volti gli occhi alle  montagne di fronte, ho riconosciuto quei tre segni nel bosco.  Mi ero fatta la fantasia che fosse l’impronta della mano di un  gigante che stava salendo dall’altro versante. Adesso che sono  chiusa in casa non saprei se sento più la nostalgia di un giro in  montagna o di una corsa al mare. Mai siamo contenti, si mangia,  si riposa, non si fa niente, si aspetta e c’è il tempo, troppo  tempo, per pensare, rimuginare e fare propositi e progetti che  hanno lo stessa possibilità di essere abbandonati di prima. La  colonia di Panchià era, comunque, abbastanza privilegiata,  tutte bambine di buona famiglia, cioccolata e formaggini della  Poa, Pontificia opera di assistenza, che avevano un certo retrogusto  di sagrestia come lo avevano i confetti che mi conservava  la zia suora. Bisognerebbe riuscire a distinguere quanto il  tempo riesca a mettere zucchero e miele nelle immagini che  vengono su da lontano, ma abbiamo tanta voglia di felicità che  crediamo a tutto.  rosella.tagliavini@gmail.com 

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