Gli anni delle acconciature

È il primo ricordo che ho di me. Forse solo perché mi sono vista in una vecchia fotografia. Ero una bambina in piedi davanti a uno di quei divani che c’erano nelle case appena finita la guerra o pochi anni dopo. Scomodi, fatti con un cassone a molle, tappezzati di quell’orribile stoffa tipo Gobelins, fiorata, tetra e pesante. Divani che non invitavano alla seduta e se ne stavano lì solo ad occupare spazio perché dovevano esserci. La bambina, però, era vezzosa, quasi in posa nella vestina davanti all’obiettivo, voleva essere bella per piacere. Erano i capelli il pezzo forte, castano chiaro e boccoluti. Inanellati strettamente giù per le spalle, Cavatappi mi chiamava lo zio di Milano. Mia mamma, invece, li prendeva molto seriamente i miei capelli, li pettinava, li legava in due codini penzolanti, li infiocchettava con nastri e coroncine di pannolenci. Quando ho fatto la foto della prima comunione con quell’abito sontuoso da sposa raffinata che mi aveva fatto, sotto la cuffietta che reggeva il velo avevo un taglio a caschetto tipo paggio, poi mai più tagli di forbici. I capelli si allungavano, neanche troppo caratterizzati, anzi, piuttosto sottili ed incerti, né dritti né ricci, solo un poco mossi e mia madre maturò per me un imperativo categorico: sarei stata un “tipo” con quei capelli lunghi.

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