Foto di classe

Capita, oppure, mi capita, che mi mandino delle foto di scolaresche antiche. Si creano dei gruppi su facebook intorno a queste fotografie che immortalano bambini e ragazzi ritratti accalcati nei cortili delle varie scuole. Spesso le suore o le medie Alberto Pio. Spesso si riconoscono gradinate, arcate, vetrate che ci hanno ospitati. Sono il frutto di quel contratto che consentiva a un fotografo, che aveva vinto non so quale appalto, di immortalare tutte le classi di un istituto al grido: “C’è il fotografo”. Neanche ci si era preparati e si andava giù a farsi sistemare in ordine di altezza su panche o per terra, pettinati alla bene meglio e guai a chi quel giorno fosse senza colletto. Poi si prenotavano le copie a carissimo prezzo e le si conservavano dentro i cassetti finché diventavano reperti archeologici. Solo allora acquistavano il potere evocativo di un oggetto magico. Quando la foto ti viene presentata, riesumata da qualcuno, e messa in rete, allora scatta la ricerca del chi c’era e del chi si riconosce, del chi ce l’ha quella foto e a chi manca, provvedere subito. Scorrono, sotto, i nomi che si è riusciti a individua re, quelli che non ci sono più, quelli che ancora frequentiamo, quelli che sono diventati altra cosa. A volte, dietro alla foto ci va pure un qualche ritrovo a cena a vedere che cosa rimane del come eravamo. E’ allora che scatta il peggio del guardarsi in faccia e ciascuno vede nel viso dell’altro i propri anni passati. Ma è davanti alla fotografia che ciascuno può soffermarsi solo con se stesso. La foto, grembiuli bianchi o grembiuli neri, maestra, suora o professoressa compresa la mitica dirigente. Miti passati, fiocchi in testa, colletti stirati e anche inamidati. Molte cose sul grembiule: o lo comperavi da Ivaldo in corso Fanti, o alla Nuova Carpi, a me lo faceva mia madre perché fosse più prezioso, con studiate pieghe, strategiche martingala, stoffa del Magazzeno. Quel Magazzeno, che rimpianto... Quando il grembiule si allacciava dietro erano le compagne che ti aiutavano e tu tenevi le braccia aperte per farlo calzare meglio. Tutti quei grembiuli, quelle trecce, quelle mollette, quei nastri, quegli atteggiamenti compunti. Lì possiamo scannerizzare ogni faccia, scrutare le posture per indovinare se fin da allora si potesse mai prevedere quello che saremmo diventate e che, oggi, controlliamo con attenzione. L’avresti detto che sarebbe diventato avvocato? O sindaco? O cosa d’altro? Chi mi aveva insegnato a tenere la testa un poco piegata e le gambe parallele e strette da principessa? Striscia un nascosto classismo di ricerca di chi ce l’ha fatta meglio di altri, di dove possiamo mai collocarci nell’oroscopo della vita. C’è una spinta mal camuffata a ricercare qualcuno, qualcosa che ti possa rispondere: come eravamo? Si poteva prevedere? Le foto di classe, quelle delle feste famose, dove si contano più i defunti che gli amici, forse sarebbero da bruciare, con solennità, si intende, su qualche altare della memoria che di memoria personale troppo si abusa a scapito dei sogni futuri.

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