Confusione da virus, ma c'è stato di peggio, di Rosella Tagliavini

No, non posso parlare della pandemia che solo al nome la gente non ne può più e ne ha abbastanza delle sue paure senza sentire quelle degli altri, ne ha abbastanza delle sue preoccupazioni senza aggiungerci quelle che le sono raccontate e le incertezze, gli smarrimenti viaggiano per conto loro senza bisogno, ormai, che qualcosa li spinga in qualche direzione. Rimedi sperati, vaccini annunciati, effetti aggiuntivi si sommano e si moltiplicano, così è meglio passare ad altro, alle speranze, soprattutto a quelle irragionevoli, a quelle troppo lontane anche dietro pagamento di fioretti ed offerte a Santa Rita che, a quella, si rivolgeva la Zia Nella anche quando non le sembrava possibile uscire dai guai. E di guai, lei, ne aveva superati tanti, dalla casa lesionata dalla guerra in cui abitava a Bolzano, alla macchina finita nel fosso sulle Dolomiti, al male di stomaco di suo marito dal carattere ombroso fino alla morte di lui all’ospedale del Celio a Roma e alla vita senza, ma con solo le braccia per lavorare, e le unghie da mettere nella terra del giardino o nei cartoni per fare le pieghe alle stoffe. Un baffo le avrebbe fatto questo virus che pascola in giro adesso. Lei di momenti buoni ne ha avuti sempre; e sempre è riuscita a gustarseli, dalle gite per le Dolomiti con la motocicletta stretta a lui fino alla pesca con la lenza sulla barca a Ischia con mio padre e l’eterna gara a chi ne prendeva di più e i pesci da friggere una volta arrivata a casa, o la coppa da tagliare con la coltellina di ferro affilata a mano per i panini della gita o alle patate arrosto che, nessuna, nessuna, poteva farle meglio di lei con tanto aglio che nessuno poteva lamentarsi e i segreti della cottura e i tempi col vapore e un goccio d'acqua. Sapeva, la Nella, anche superare gli attriti con sua figlia che era fatta di una pasta diversa e non aveva quella valvola della creatività che è quella che sblocca la pentola a pressione della vita e che impedisce al vapore di farla scoppiare.

Un poco di patate e un poco di creatività le ha lasciate anche a me anche se non sono riuscita a farmi vendere gli orecchini che portava e neanche la zaffiro cabochon che teneva perennemente al dito con le unghie nere anche quando distribuiva nell’aiuola la cacca di cavallo come fertilizzante. Mio padre sceglieva dal catalogo olandese i bulbi da mandare a prendere e lei li ficcava dentro le zolle con un suo disegno di percorsi e di colori. Io, di tutti i suoi doni, mi meraviglio quando mi riempio di gioia per una barchetta fatta su con un pezzetto di legno trovato per terra. Per aggiunta, pretenderei anche la capacità dell’ordine e della costanza che nessuno mi ha imposto e impresso nel dna insieme ad altri segni e so che è pretendere troppo. Nel tempo ho supplito esponendomi a vincoli e passaggi obbligati, ma adesso non sono più capace e galleggio in mezzo alla confusione mentale non sapendo da che parte cominciare a spolverare. Sognando, persino, di imparare a suonare qualcosa che è la gioia della musica, un’arte che mi manca.