Da antichi suiveur dei Consigli comunali, avendo assistito, temiamo, all'ottavo insediamento, ci sentiamo autorizzati a esprimere un non so che di preoccupazione, per non dire di quasi panico. Che, lo diciamo subito, si lega alla prospettiva di dover assistere, sempre che il ciclo vitale prosegua e la salute ci conforti, a un ulteriore quinquennio scandito dalla piatta e sciatta oratoria di alcuni degli intervenuti, l'altra sera, all'inaugurazione del nuovo mandato consiliare. Eccolo lì, quel che manca: la retorica. Nel senso buono, ovviamente, di arte oratoria, di efficacia comunicativa, non disgiunta da quegli artifici, da quegli accorgimenti linguistici e di stile che possono rendere attrattiva anche la più noiosa delle illustrazioni di provvedimenti amministrativi o di linee programmatiche. segue
Nuovo Consiglio comunale: se viene a mancare la nobile arte del saper parlare in pubblico
Parlare in pubblico, si sa, è arte difficile che richiede scuola e allenamento. Non basta trasferirvi pari pari l'eloquio sperimentato in qualche riunione aziendale o di studio professionale, né l'approccio comunicativo di una lezione in classe: occorrono scuola e un severo studio. Si narra che Demostene ateniese, conosciuto come il più grande oratore dell'antichità, ai suoi esordi si esprimesse in modo impacciato, con frasi lunghe e sconnesse, aggravate per di più da un difetto di pronuncia, il rotacismo: pronunciava cioè la erre come la elle, esattamente come capita ai Cinesi. Furono un vecchio, Eunomo, e un attore di nome Satiro, a convincerlo che la materia prima c'era, ma andava plasmata. Racconta Plutarco, che Demostene si sottopose allora a un duro programma di allenamento per migliorare dizione, gestualità, espressività, rendendo così più efficaci anche i contenuti. Inutile dire che gli Eunomo e i Satiro non ci sono più: i partiti politici e l'allenamento continuo cui obbligavano erano la scuola, più o meno strutturata, dove le doti naturali si incanalavano negli artifici della comunicazione. Non era necessario sapere esattamente che cosa fossero il chiasmo o l'anafora, il climax o l'ossimoro, l'iperbole, la metafora o la sineddoche: li si imparava con l'esercizio. Si apprendevano le pause, le tonalità di voce, l'ironia, le sospensioni per creare aspettative, avendo sempre un occhio alle reazioni del pubblico.
Ecco: niente di tutto questo, l'altra sera. L'emozione ci stava, obbligando a tenere sott'occhio un testo per non perdere il filo. Ma la lettura piatta, monocorde, senza traccia di sobbalzi, iniezioni di humour, sottolineature tonali, aggiunti all'abbondante gergo politichese hanno letteralmente svuotato la platea dei cittadini accorsi nel cortile di Palazzo Pio con le migliori intenzioni. Al confronto con il soporifero incedere della capogruppo del Pd, la sua rivale di Fratelli d'Italia è parsa una sperimentata oratrice; e perfino l'afona esponente civica ha lasciato intravedere doti naturali di eloquio, istintivo più che studiato, tali da surclassare in futuro tutti i colleghi, se non sapranno scrollarsi di dosso sciatteria e timidezze. E non impareranno che parlare in pubblico e saper convincere richiedono spontaneità e disciplina, leggerezza e rigore, vuoti e pieni, raffiche e attese, insieme all'arte sublime della sintesi e della brevità. Non è una critica, ma una supplica.