Il Coronavirus oggi lo conosciamo tutti: quell’immagine sferica costellata tutt’intorno da puntini rossi a formare una corona, la si identifica subito per ciò che è. Merito di un’attenzione mediatica all’immagine scientifica che mai in passato si è presentata con uguale intensità. In televisione, su riviste e quotidiani, in pubblicità, il virus o meglio, in questo caso, la sua rappresentazione visiva, è ovunque. Colpisce che la sua immagine sia diventata iconica più di ogni altra nella storia, forse ancor più di quella dell’Hiv negli anni Ottanta. È questo il tema di una riflessione che il critico d’arte e curatore di allestimenti carpigiano Luca Panaro ha portato il 21 settembre scorso al Festival delle Medical Humanities organizzato dall’Azienda Ospedaliera SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria, intitolato quest’anno “Iconografia della salute”. “Fotografia e rappresentazione del Covid-19” era il titolo dell’intervento di Panaro, che ha spiegato come sia stato proprio il bisogno antropologico di dare un volto all’invisibile, per poi averne meno paura ed elaborarlo psicologicamente, a sospingere artisti e creativi a focalizzare la propria attenzione sui differenti modi di rappresentare il virus. Docente all’Accademia di Brera e al Politecnico di Milano, oltre che fondatore del progetto didattico di arte contemporanea Chippendale Studio, Luca Panaro è rimasto molto colpito dal ruolo che l’immagine ha avuto nella pandemia.
Come nasce il suo filone di studio?
«Il punto di contatto tra la rappresentazione visiva e la Medicina è un tema che mi affascina. Sempre più, oggi, i medici si interfacciano al paziente attraverso un’immagine – tac, raggi, risonanza – che leggono e decifrano. Mi interessa fare dialogare due grandi approcci, lo scientifico e l’umanistico, senza contrapporli. Non a caso, oggi, la scienza ha avuto bisogno dell’immagine per comunicare»
