Afghanistan: il popolo che non c'è

L'errore di prospettiva dei media occidentali tutti concentrati su Kabul e sugli Afghani coinvolti con noi, ma minoranza rispetto a un popolo del tutto assente e assuefatto

Le immagini e i commenti sulle vicende afghane sono da settimane sotto gli occhi di tutti. Il dolore e la rabbia sono i sentimenti più diffusi, al pari degli interrogativi politici: quelli che ruotano intorno alla constatazione desolante di vent'anni di sforzi e quasi mille miliardi di dollari investiti tra l'intervento militare e la ricostruzione civile, spazzati via in pochi giorni dall'avanzata dei talebani. Sui quali si discute se siano o meno diversi da quelli che già avevano governato il Paese tra il 1996 e il 2001, a loro volta scalzati dall'azione punitiva di Usa e Nato, avviata come ritorsione per l'attentato delle Torri gemelle e diventata via via il tentativo di edificare uno stato, ricalcato sul modello delle democrazie occidentali. Non siamo certo esperti di cose afghane e ci guardiamo bene dall'entrare nel merito delle vicende di una terra giustamente definita "la tomba degli imperi” – prima il britannico, poi il sovietico e ora quello americano – con i suoi deserti e le sue alture capaci di nascondere una guerriglia di matrice tribale, inafferrabile nei suoi contorni, irriducibile alle nostre categorie di giudizio (continua a leggere).

 

Quello su cui vale più la pena riflettere, perché si tratta di materia tutta nostra, è invece l'angolo di visuale adottato dai media per giudicare le vicende di questi giorni, dalle immagini della folla che corre insieme al gigantesco C17 dell'aeronautica Usa, al volo dai carrelli così drammaticamente evocativo di quelli dalle Torri gemelle in fiamme; dalla folla che si stringe nella fogna a cielo aperto intorno all'aeroporto di Kabul al giovane funzionario d'ambasciata italiano che cerca di estrarne un bambino, fino alle file di donne, bambini e uomini che si allungano sulla pista rovente per andarsi a stipare nelle pance capienti dei giganteschi cargo militari, con stampata sul viso l'espressione di chi sa che cosa lascia, ma non quale sarà il proprio orizzonte esistenziale. Tutto ben documentato, tutto ben raccontato con rara efficacia di immagini e parole. Ma tutto così concentrato su una città, Kabul, su un luogo, l'aeroporto, e su una parte della popolazione, quella che ha collaborato con le potenze occidentali, quella che ne ha sentito maggiormente l'influsso e si è più adeguata alla nostra cultura e ai nostri costumi, che sarà pure ampia – si parla di qualche centinaia di migliaia di persone –, ma che è incommensurabile con i 38 milioni di abitanti dell'intero Afghanistan. E che resta pertanto infinitamente lontana dall'essere rappresentativa di un popolo intero che poi popolo, nel senso nostro, non è affatto, frammentato com'è fra mille antiche differenze di etnia, lingua, religione e contrastanti interessi economici. Perché se lo fosse, un popolo come lo intendiamo noi, non si capirebbe la sua totale assenza, il suo silenzio rispetto alle urla disperate che si levano dall'enclave della capitale per le rappresaglie, le donne imprigionate di nuovo nel burqa, la musica e la cultura negate, i ventenni cresciuti nel periodo di occupazione, di nuovo privati di un futuro. Per le nostre categorie, dovrebbero essere loro, i giovani, le donne e quanti in questo ventennio sono venuti a contatto o cresciuti con la presenza occidentale a farsi minoranza trascinatrice di una reazione. E qualche reazione c'è stata, soprattutto da parte delle donne: ma decollato l'ultimo aereo su di loro, come su tutti coloro che hanno conosciuto un briciolo di diversità, è facile prevedere che scenderà il silenzio. Quello di un popolo assente e assuefatto, che nei Talebani si rispecchia più che nelle folle disperate dell'aeroporto di Kabul.