Nel ricordo di Gianfranco Imbeni

VIVERE DENTRO (E FUORI) CARPI ALLA SUA MANIERA

di Carlo Alberto Parmeggiani

Il dispiacere c’è e non è poco. Se n’è andato un  amico, anzi un “fratello maggiore”, come lui  stesso si considerava nei nostri incontri occasionali  e della cui considerazione io ero diffidentemente  lusingato, aspettandomi da lui, subito dopo, l’arguzia  di una battuta che ridimensionasse, sminuisse, sfregiasse  o negasse del tutto quella finta stretta parentela.  Quello era il suo modo di avvicinarsi e di prendere  misura a chi e da chi in qualche modo riteneva un buon  amico, e chi lo era quasi sempre ne intuiva i sentimenti,  la piega e la ragione di quel suo dire e poi disdire.  Per chi negli anni Settanta avesse avuto una ventina  d’anni quando lui ne aveva una trentina, Gianfranco  Imbeni, con la sua loquela scoppiettante, con le  sue dionisiache irriverenze nei confronti  delle istituzioni e delle persone più in vista  del nostro strapaese, dava segni di avere le  idee piuttosto chiare su certa carpigianità  indaffarata, intenta ad arricchire, baciapile,  sinistramente conformista e grossolanamente  rivoltosa, indottrinata dalle  istituzioni culturali, dalle chiese e dalle  scuole di partito. Per taluni di noi era un  paradigma di una contestazione universale,  per tal altri un seducente modello di  giudizio crociano sulle cose, da guardare  con sospetto o da adottare. Per chi, poi,  sul finire degli studi e dei vent’anni si fosse  guardato in giro fra la Piazza, la Piazzetta, Corso Fanti  e la Stazione, per trovare una via di fuga da un provincialismo  che angustiava, altro non restava che tentare  di smarrirsi altrove, o di vivere la propria città come un  forestiero, oppure di viverci dentro (e fuori) alla maniera  di Gianfranco Imbeni. Ovvero quella di farsi personaggio  e portavoce delle bellezze e delle miserie di una  città che ancora si espandeva, che ancora produceva  un benessere diffuso, insieme, tuttavia, a uno sfilacciamento  di buone regole sociali, politiche e ancor di più  civili, al punto di fare della piazza cittadina la sua tribuna,  ovvero la sua scrivania su cui appoggiare il suo  bicchiere di sorbara e scrivere brillantemente le sue  note di costume, i suoi Dentro e Fuori e i suoi sagaci  Sottovoce.  

Chi poi l’avesse conosciuto da vicino condividendone  il piacere di tirar mattina, il gusto della spavalderia  e a volte anche la cena, sapeva quanto puntute, incisive,  ricche e generose fossero le sue facezie, il suo acume,  la sua compagnia e la sua persona nel compito per  il quale sentiva d’esser nato e che nessuno gli misconosceva.  Ossia quello di scrivere e di tener banco in un  festevole convivio o di annotare, se non di smascherare  e dileggiare i pallonari e i pifferai d’ogni colore, lo stinto  perbenismo di certi nostri vivi e morti concittadini,  la grossolanità e l’insipienza di certe scelte politiche  locali, per non dire dello sfoggio di sciocchezze di certi  nostri “promotori” culturali. E ciò sempre in nome e  nel rispetto di una sua passione civile, di una sua visione  politica e storico-sociale ben schierata e di una  solida cultura che gli permetteva di separare con una  battuta o in poche righe il loglio dal grano negli atti e  nelle parole di molti politici locali e nazionali, di molti  scrittori e pensatori fra i più acclamati del passato e  pure attuali.  In quegli anni di lento ma inesorabile declino di  una carpigianità che più non era quella popolare che  egli amava, a guardarsi intorno pareva non ci fosse  alternativa. Fare come faceva Imbeni o, viceversa, fare  i soldi e comprarsi un’auto di lusso o un più sfizioso  spiderino, pareva fossero i poli opposti di un magnete  che attiravano gli irrequieti e acculturati  giovani di allora che sedevano lividi o allegrotti  al Caffè del Teatro o al Bar Milano.  Stare nel mezzo di quelle polarità magnetiche  e opposte dava l’idea di un disonore,  dava l’idea di un punto morto, di un ripiego  andreottiano, di un piegar la testa a un  volere superiore senza sapere quale. Ma a  far soldi, per chi non ne aveva, non tutti  per incapacità o per sfortuna ne erano capaci.  Né ad altri riusciva meglio di fare la  vita letteralmente scapigliata di Gianfranco  Imbeni che in questo non aveva uguali.  Il quale Imbeni se l’era presa, la sua vita,  rinunciando a piccole o agevoli fortune, rinunciando  inoltre alle anodine e sociali convezioni e alla scaltra e  accomodante separatezza fra pubblico e privato. Ed è  curioso come nei suoi frequenti cambi di abitazione si  portasse dietro sempre meno roba, non già per la pigrizia  a cui pure indulgeva ma quasi non volesse avere più  a che fare col passato e con gli oggetti appartenuti alla  sua vita privata. Per lui il pubblico era il suo privato e  il suo privato era quanto di meno segreto ci si potesse  aspettare da qualcuno. Benché se la svignasse da certe  sue amarezze e disillusioni dietro a una battuta spiritosa  o nell’ostentare un contagioso buonumore, il suo  segreto era forse quello di volere spogliarsi laicamente  di ogni bene materiale e di non volere aver segreti per  nessuno e niente, stando alle sue parole, era più serio  del non prendersi sul serio, se non per quella parte di  se stesso che risvegliava la più manifesta delle sue doti:  la scrittura. La scrittura come piacere, come denuncia,  come tramandamento di un pensiero, come tecnica di  sopravvivenza contro il tempo che tutto brucia e incenerisce.  Era la scrittura, e che scrittura!, ciò che dava  ancor più vigorìa e peso al suo stile di vita, ai suoi giudizi  fulminanti e ai suoi giri di pensiero che poi riversava  in lunghi articoli oppure in brevi note, in quelle sue forme  brillanti e originali a mezzo fra la prosa letteraria  e la nota pittoresca di costume. Tanto è vero che fra le  poche cose che si portava dietro nei suoi cambi di casa,  fino a fare delle sue case madri talora quella della figlia  Caterina e quella di Giulio Beltrami, amico di sempre  e d’avventure picaresche e strampalate, non mancava  mai un buon vocabolario, né mancavano i Canti o le  Operette morali leopardiane, né I Promessi Sposi di  Manzoni, né il florilegio delle tre corone fiorentine, né  il capolavoro di qualche altro gigante della letteratura  sopra ai quali modellava la sua prosa. Di quegli articoli  e di quelle note che cesellava per sé stesso o per Voce, se  ne attendeva settimanalmente la sorpresa, l’irriverenza,  la sottigliezza, la fattura, la trovata, il colpo d’ala, la  critica puntuale, la maldicenza oppure l’elogio di qualcuno  o di qualcosa frammezzo a un lessico prezioso  e una sintassi che piegava da maestro ai suoi disegni.  Le sue arguzie, la sagacia, le sue provocazioni, le sue  puntualizzazioni, le sue demistificazioni, le sue lodi a  cui però quasi subito seguiva una antifrasi che le contraddiceva  affinché il beneficiato non se ne vantasse  oltremisura, erano espressione dell’agilità mentale, di  una sua profondità e di un’inviabile naturalezza nel  narrare. E pure quando la sua nota rasentava, e a volte  anche centrava, la mancanza di rispetto e l’affronto  personale, aveva tuttavia in sé il contravveleno della  cosa fatta bene, del “pezzo” scritto bene, del well done!  conradiano. Il pezzo ben scritto a cui molto si perdona  per bravura e distinzione e che soltanto i rancorosi,  i consapevolmente maneggioni e mestatori non potevano  apprezzare, cogliendo invece in quelle prose  non già la sagacia o la giustezza di una critica non solo  accennata, bensì soltanto lo sberleffo, la provocazione,  la malignità o una accusa proditoria che toglieva  poca o tanta quiete agli interessati. Certo l’eleganza  di un’irrisione di un fatto accaduto, di una politica locale  insipida o boriosa o di una “messa in piazza” della  protervia di un ottimate o di un signor nessuno, non  attenuava e neppure nascondeva alla lettura il difetto,  la magagna del fatto o della persona che aveva generato  la sua nota. Difetto, arroganza, presunzione, oppure  magagna che Imbeni sapeva cogliere d’acchito. Una  parola e il colpo d’occhio gli bastavano per suggerire ai  suoi lettori questa o quella considerazione che andava  oltre il fatto o la persona adombrata dietro a pochi  cenni distintivi, oppure nominata per nome e cognome.  L’articolo o la nota colpivano nel segno ma in quel  suo modo di vivere e di scrivere la vita della nostra cittadina  non c’era mai ferocia, né malanimo o rancore,  né superbia o supponenza da inquisitore e nemmeno  c’era mai un che di personale. Non era tipo da litigi o da  dente avvelenato con qualcuno, e anche quando la sua  lingua e la sua penna si facevan biforcute sulle pagine  di Luce, La Tribuna, Il Giornale, Dentro e Fuori, oppure  di Voce, più che il morso dell’aspide letale era il mordere,  di un guizzo, il cuore del problema o della questione  sempre attuale che gli andava di trattare alla sua  maniera.

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