Il carpigiano Olivo Barbieri, fotografo di fama internazionale spiega il senso delle sue canzoni

La realtà? No, la comprensione

La verità è che non ho mai lasciato Carpi e non ho mai abitato a Milano o a Roma, come riportato sul web. Sono nato qui e vivo qui. Mi sposto solo quando lavoro». E in tutto il mondo è stato per lavoro il fotografo Olivo Barbieri, classe 1954, riconosciuto per la sua tecnica innovativa e inconfondibile tramite la quale crea miniature fotografiche da paesaggi reali. Barbieri fa parte di quella generazione che, prima a livello internazionale, negli anni Ottanta si fece carico di scoprire che cosa ci fosse intorno ai centri storici, di “illuminare” (termine che per Barbieri si rivelerà fondamentale) le periferie allora ritenute tristi e poco interessanti. Questi luoghi sono documentati ora nella mostra organizzata dalla fondazione MIA e inaugurata il 26 giugno scorso presso il Monastero di Astino, in provincia di Bergamo. “Olivo Barbieri. Early works 1980-1984”, questo il titolo, a cura di Corrado Benigni, riunisce per la prima volta 35 fotografie raffiguranti prevalentemente l’Italia, dai grandi centri urbani alle piccole città, colte nei momenti di vita quotidiana. Alcune delle fotografie esposte hanno fatto parte di “Viaggio in Italia”, il progetto ideato nel 1984 da Luigi Ghirri, altre sono inedite. “Non sono mai state raccolte e pubblicate in modo organico. Sono immagini di poco prima che tutto fosse fotografato e vorticosamente divulgato. Prima del web e dei telefonini”, ha spiegato di recente l’autore.

Ci racconti della mostra.

«Dopo 40 anni, ho messo mano all’archivio e sistemato questo periodo che è stato per me l’inizio, come lo fu anche per tutta una generazione di fotografi che usavano l’immagine a colori e che nascevano con l’idea di interpretare e utilizzare le fotografie come opere, non come documenti o per fare fotogiornalismo. La mia generazione è stata probabilmente la prima a usare la fotografia a scopi esclusivamente artistici. Tutti gli autori più affermati di oggi sono partiti da lì. Quanto all’organizzazione, Bergamo ogni anno dedica una mostra e un libro a un autore: questa volta hanno chiesto a me un progetto. Avevo questa raccolta non dico già pronta, ma abbozzata, così abbiamo deciso di ricavarne la mostra. C’è stata naturalmente tutta una serie di travagli: la situazione era terribile, l’esposizione doveva inaugurare ai primi di maggio e a un certo punto avevo deciso di rimandarla di un anno. Poi la tensione è calata e questo è diventato il primo evento dopo il lockdown, un simbolo della riapertura della città da un punto di vista culturale»

Quanto conta l’errore in fotografia?

«Ho sempre agito nell’incertezza della domanda, più che nella certezza della risposta e ogni volta che mi sono trovato a realizzare un progetto ho optato per questo meccanismo di apertura al reale come una figura fragile, non contundente, che cerca di prendere la stessa forma del reale per creare empatia e comprensione. A quel punto l’errore è sempre fondamentale, perché quando non hai un meccanismo certo, prestabilito, preciso, già collaudato, ti trovi a dover sperimentare. Cercando una cosa ne ho sempre trovata un’altra: di solito quella che più desideravo vedere, conoscere e capire era la meno importante, mentre a fianco ce n’era sempre un’altra che mi dava ulteriori aperture e possibilità. Questo è frutto di una naturale componente di rischio, più o meno calcolata e all’origine di alterne fortune o sfortune. La mia attitudine è comunque sempre quella di propormi come un osservatore poco invadente: ho sempre cercato di non spostare nulla, di non creare situazioni, ma di viverle (e parallelamente le cose o le persone che rappresentavo)»

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