di Elisa Paltrinieri
Siamo tutti felici, quando si compiono passi avanti nel difficile cammino dell’integrazione. E chi non vorrebbe che, al di là di religioni, razze e colore della pelle, la popolazione di Carpi si vivesse in futuro come una sola, con il medesimo senso di attaccamento e appartenenza alla città, alle sue tradizioni, ai suoi simboli? Dando piena pregnanza al concetto del no taxation without representation, e al suo contrario?
L’iniziativa della Consulta, sotto questo profilo, è stata sicuramente importante e doverosa, perché fa leva su energie positive per la città e perché tenta di favorire processi di comunicazione fra comunità differenti.
La sensazione è però che tutto ciò resti la rappresentazione di un mondo possibile più che una fotografia del mondo reale, quello che ogni giorno tutti noi sperimentiamo sulla nostra pelle in quanto usufruiamo di servizi e condividiamo degli spazi.
Che cosa succede, infatti, nelle scuole, nei parchi, nel consultorio, in ospedale, nei servizi sociali, nei condomini, nei luoghi di lavoro e via discorrendo? Che cosa succede quando persone di culture, storie, religioni così distanti si trovano fianco a fianco? Ci siamo pluralizzati, è una verità imprescindibile e irrevocabile: ascoltiamo musica islandese, mangiamo sushi, affidiamo i nostri parenti a badanti rumene, compriamo una quantità infinita di prodotti cinesi, facciamo pulire le nostre fiere da filippini marocchini nigeriani, facciamo guardare ai nostri figli cartoni russi. Ma il confronto con una simile eterogeneità viene vissuto sempre come ricchezza? Sentire il diverso come qualcuno che non toglie nulla è frutto di una costruzione difficile, lunga, insidiosa, fatta di passi avanti e di passi indietro.
