Un pacco di diamanti

Qualche tempo fa, dovendo reinvestire per conto di una zia ultranovantenne una somma ricavata da titoli in scadenza, mi sentii offrire dalla responsabile di una primaria banca un investimento in diamanti. Naturalmente non abboccai, per due motivi: l’età della zia, che sconsigliava l’immobilizzo di capitali in “beni rifugio”, e la fiscalità; infatti rivendendo i diamanti, in caso di necessità, non sarebbe stato possibile recuperare l’Iva, pertanto l’investimento si sarebbe chiuso in perdita.

Considerazioni di semplice buon senso che però non tenevano conto di ben altre insidie celate nell’accattivante proposta.

 

Emerge ora, da un’inchiesta dell’Antitrust, che i prezzi dei diamanti venduti attraverso il canale bancario erano manipolati e in certi casi superiori di ben cinque volte al prezzo di mercato. Secondo fonti attendibili, ad esempio, diamanti da un carato che sul mercato internazionale quotavano 13 mila euro nel 2002, a fine 2016 quotavano meno di 10 mila euro, con una perdita del 27 per cento. Ma per i diamanti venduti in banca le quotazioni erano, rispettivamente, di 30 mila e 48 mila euro, con un guadagno ipotetico del 60 per cento. I clienti del sistema bancario ricevevano periodicamente estratti conto con la stima in costante aumento. Le quotazioni sul circuito Reuters invece oscillano parecchio e il grafico presenta l’andamento caratteristico di ogni vero mercato con i classici su e giù.

 

Come si spiega la progressione continua delle valutazioni, nel primo caso? Semplice: trattandosi di “beni rifugio” nessuno vendeva quindi non esisteva un mercato vero e proprio. I pochi clienti che avevano necessità di “realizzare” venivano soddisfatti dalle stesse banche che riacquistavano i diamanti. Il problema della sovrastima è venuto a galla quando le richieste di disinvestimento si son fatte numerose. A quel punto sono stati sospesi i riacquisti e il “mercato” si è improvvisamente bloccato. Gli investitori che avevano sperato in un affare si sono trovati così con il cerino in mano. Con la prospettiva di perdere, su un investimento ritenuto sicuro, la stessa percentuale persa con le obbligazioni argentine o delle banche italiane “risolte”.

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