Quando la storia rischia di ripetersi, Soldi nostri

A distanza di un secolo gli eredi del fascismo, con ogni probabilità stando ai sondaggi, torneranno al potere. Favoriti, oggi come allora, dalle divisioni del campo avverso e dalla crisi, sociale e economica, che esploderà in autunno. Ma si troveranno a gestire una situazione estremamente difficile, che potrebbe, in breve, portarli a finire come già i grillini o i leghisti: governare, in certe condizioni, logora e il consenso popolare lo si perde molto rapidamente, come dimostra il travaso di preferenze da Salvini alla Meloni. Non mi unirò al coro di lai per la dipartita di Draghi, che però considero un segnale preoccupante. Se ha gettato la spugna dopo aver ottenuto per ben due volte la fiducia in Parlamento e potendo ancora contare su una larga maggioranza è perché lui stesso ha previsto che l’Italia attraverserà un periodo difficilissimo: meglio quindi che le colpe ricadano su qualcun altro (della serie: “Vai avanti tu che a me scappa da ridere”). Draghi, considerato l’uomo della provvidenza, non ha ottenuto risultati lusinghieri, anzi la situazione è notevolmente peggiorata anche a causa di scelte del suo governo. Due, principalmente, i suoi errori. Aver accettato lo scorso anno la liberalizzazione dei prezzi dell’energia a livello europeo, che già aveva fatto salire notevolmente i prezzi del gas ben prima dello scoppio del conflitto e, poi, aver assunto una posizione apertamente bellicista contro la Russia. 

I problemi di approvvigionamento e i prezzi fuori controllo del gas, unitamente alle sanzioni che l’Italia si è auto inflitta, gli hanno alienato ampi settori dell’opinione pubblica (imprenditori e lavoratori delle imprese colpite, ma anche semplici cittadini consumatori, alle prese con bollette folli). L’inflazione sopra l’otto per cento e lo spread più che raddoppiato, unitamente a perdite del venti per cento sugli asset finanziari, ovvero sui risparmi degli italiani, hanno offuscato non poco l’immagine del super tecnico “salvatore della Patria”. Quanto al Pnrr, il 18 per cento di provvedimenti è stato approvato, ma solo l’un per cento è stato attuato (al solito si imputa la colpa alla burocrazia, che però agisce in base a provvedimenti normativi del Parlamento e del Governo). Insomma, se la pandemia, la siccità e le cavallette erano inevitabili, forse un’altra piaga biblica, la guerra, poteva essere evitata, ricorrendo alla diplomazia. Draghi, invece, con Boris Johnson, è stato in prima linea contro la Russia, a fianco degli Usa. È un caso che entrambi i governi siano caduti simultaneamente, messi in crisi dalla propria stessa maggioranza? E per incidenti di percorso tutto sommato banali, quello inglese poi per una cosa veramente da nulla. Forse era necessario fare spazio ad altri per riavviare una trattativa seria con Mosca? Perché è chiaro che la situazione, nell’inverno, diverrà insostenibile. Si credeva, qui, che le sanzioni avrebbero piegato la Russia ma il rublo si è invece rafforzato (è in atto anzi addirittura il tentativo di agganciarne il valore al prezzo dell’oro, aggancio che il dollaro ha abbandonato ormai da mezzo secolo, dai tempi di Nixon), mentre l’euro è sceso a picco, raggiungendo la parità con il dollaro. 

Soprattutto, stanno soffrendo le economie dei paesi occidentali: le borse dei paesi dell’Est Europa hanno perso il 77 per cento dall’inizio del conflitto, quasi il doppio di quanto ha perso la borsa di Mosca. L’Ucraina, finanziariamente, nonostante il fiume di denaro che arriva dall’America e dall’Europa, è con l’acqua alla gola: costretta a stampare cartamoneta, l’inflazione è alle stelle. Zelensky ha già presentato agli alleati il conto delle spese per la ricostruzione: 750 miliardi di euro, e subito Draghi e la von der Leyen, alla recente conferenza di Lugano, si sono impegnati a sostenere questa enorme spesa. Come sempre, se la guerra favorisce gli interessi dell’industria delle armi, è la ricostruzione che rappresenta la fetta più grande della torta che, in questo caso, si spartiranno i soliti oligarchi ucraini (gli oligarchi infatti non ci sono solo in Russia). All’inizio del conflitto, quando è giunta la notizia dei primi denari che affluivano in Ucraina mi son detto: se cominciano ad arrivare soldi questa guerra non finirà più. Preoccupa, soprattutto, l’escalation nell’uso degli armamenti: con l’arrivo di nuove armi e di aerei da combattimento americani, il rischio di un conflitto armato diretto tra le due superpotenze e i loro alleati cresce di giorno in giorno. Ricordiamo le immagini, trasmesse dai Tg, dei nostri alpini in tuta mimetica bianca appostati ai confini della Russia e il pensiero corre inevitabilmente alle Centomila gavette di ghiaccio. Ripetiamo quindi la domanda che ci siamo posti mesi fa: ma davvero il Donbass e la Crimea valgono il rischio della fine del mondo?