Il peso del debito

è un grande assente nel dibattito politico italiano, per altri versi infuocato: il macigno costituito dal debito pubblico. La politica monetaria espansiva di Draghi, che pare stia volgendo al termine nel giro di qualche mese, ha favorito la rimozione di questo spauracchio e, come temevano giustamente i Tedeschi, l’azzardo morale da parte dei debitori. Maggioranza e opposizione non hanno dimostrato, concretamente, di avere politiche diverse al riguardo, anzi, hanno giocato a chi la sparava più grossa. Risultato? Dopo tre anni di mirabolanti promesse renziane, il debito è al 133 per cento del Pil, nonostante i tassi di interesse siano sotto zero. Naturalmente se governassero i cosiddetti populisti il debito sarebbe prossimo al 177 per cento, come in Grecia. Che cosa accadrà quando i tassi risaliranno e la spesa per interessi tornerà a pesare sul deficit e sul debito accumulato? Chi pagherà il conto? Certo la responsabilità dei governanti non è la sola: una crisi economica durata un decennio ha ridotto il Pil, la produzione industriale e il reddito degli Italiani, ma bisogna capire perché si è interrotto il processo virtuoso avviato dal governo Prodi, che aveva riavvicinato il rapporto debito Pil al 100 per cento, con la prospettiva di una ulteriore riduzione che avrebbe reso definitivamente sostenibile il fardello del debito. Le politiche di Berlusconi prima, e di Renzi poi, sono andate in direzione opposta, con questo bel risultato. Sarebbe ancora possibile invertire la rotta ma bisognerebbe adottare provvedimenti impopolari: aumentare le tasse o tagliare i trasferimenti alle famiglie e alle imprese. Riducendo questi trasferimenti, anzi, si potrebbe, al tempo stesso, ridurre sia il debito che la pressione fiscale, ma si dovrebbero toccare interessi costituiti pagando un dazio, in termini di consenso elettorale. E siccome incombono continuamente le elezioni, tutti si guardano bene dal fare proposte impopolari. Renzi si è dato anzi da fare, con i vari bonus, per cercare il consenso incrementando la spesa pubblica (abbiamo ancora in sospeso con l’Europa il conto degli 80 euro, che ci costerà, prima o poi, l’aumento dell’Iva quando scatterà la clausola di salvaguardia). Non che vada meglio con le opposizioni, naturalmente: il Movimento 5 Stelle avanza proposte degne di Masaniello (e non a caso viene dato in netto vantaggio nel Meridione), Salvini, sulla scia della Le Pen, propone tout court l’uscita dall’euro (mi raccomando di votarlo, se volete la benzina a ottomila lire al litro), mentre Berlusconi ha lanciato la geniale idea di una doppia circolazione monetaria, con la lira a fianco dell’euro. Secondo voi come saranno denominate le transazioni finanziarie? In euro, con ogni probabilità. E salari e pensioni? Ma in lire, è ovvio! In lire di piccioli, come si diceva anticamente, con riferimento alle vili monete in rame, con le quali venivano pagati i salari, mentre nei forzieri si accumulavano fiorini, zecchini d’oro e ducatoni d’argento. Tutto ciò premesso, mi è capitato di discutere con un filosofo delle prospettive dell’Italia. Le sue conclusioni sono in tutto e per tutto simili a quelle cui è arrivato un economista cui ho posto le stesse domande, ovvero: “C’è speranza per l’Italia? A chi ci possiamo affidare?”. Risposta negativa a entrambi i quesiti: “No, non c’è nessuna volontà politica di cambiare le cose” e “Nel panorama politico attuale non c’è nessuno che abbia la seria intenzione di metter in sicurezza il Paese, si vive alla giornata”. Pessimismo cosmico? Mah, basta guardare il telegiornale per farsi opinioni non dissimili. Peraltro anche i mercati stanno votando con i piedi, ovvero abbandonando la barca Italia, in procinto di affondare. I fondi hedge stanno prendendo posizione contro i nostri Btp (ovvero cominciano a speculare al ribasso) e anche molti risparmiatori italiani stanno diversificando sull’estero per timore di una crisi seria quando Draghi smetterà di acquistare i titoli del nostro debito pubblico. Facile prevedere le conseguenze: anche senza arrivare all’insolvenza, aumenteranno comunque i tassi d’interesse e caleranno i prezzi delle obbligazioni. Non è ancora detto che debba finir male necessariamente: siamo abitati ai colpi d’ala in extremis. Tale fu l’esperienza del governo Monti, quando lo spread viaggiava dritto verso i 600 punti. Ma oggi non c’è un Monti all’orizzonte a fare da garante verso i creditori e anche l’onesto Padoan deve starsene buono buono con la coda tra le gambe per assecondare i desiderata di Renzi (che tiene le fila del governo da dietro le quinte).

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