Settegiorni, su Voce digitale del 3 novembre

"Libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber. Fu preso alla lettera e c'è stato un tempo, tra i Settanta e gli Ottanta, in cui si diede fondo al concetto e niente passava se non c'era partecipazione, appunto. Tanto che qualcuno, di fronte ai tempi e agli inciampi che comportava praticarla (i consigli di quartiere, per esempio), cominciò a spazientirsi e a chiedersi se non fosse il caso che i decisori, messi lì per quello, decidessero e basta. Per come siamo fatti noi italiani, ora si è passati all'opposto. E tante cose che meriterebbero almeno un giudizio partecipato, perché destinate a durare nel tempo e a incidere sui panorami che abbiamo permanentemente sotto gli occhi, passano così, senza sapere bene chi e come siano state decise. Tutto questo per venire alla fontana di corso Roma: chi ne ha mai visto il progetto? C'è stata una qualche consultazione, anche solo interna, per valutarlo? E la Commissione Qualità Architettura e Paesaggio dell'Unione ha avuto niente da dire in proposito? Solo perché, a tu per tu, nei corridoi comunali è tutto un dissociarsi dalla scelta: ma allora chi se ne deve assumere la responsabilità?

 

Cambiamo discorso, ma restiamo dalle parti del Municipio. Per auspicare una sorta di obbligo di residenza per i dipendenti comunali nelle città in cui lavorano. Almeno per determinate categorie il cui operare ha una diretta incidenza sulla quotidianità, come nel caso degli agenti di Polizia Locale; o degli addetti alla manutenzione, all'arredo urbano o a certi sportelli. E questo perché, nella duplice veste di cittadini e addetti dell'ente che li governa, magari saranno più attenti e solerti, sapendo di dovere anche loro sopportare le conseguenze di incurie, mancate risposte, trasandatezza e lasciare andare le cose ché tanto alle 13 si smonta.