Giovanni Arletti, imprenditore
Un argomento ricorrente nelle discussioni fra gli amici è il pericolo atomico della Corea del Nord. Personalmente non ho alcun timore dello scoppio di una guerra nucleare, semplicemente perché non avverrà: gli Americani le guerre le fanno, di solito, sotto presidenze democratiche. E oggi c’è un repubblicano circondato da militari: la classe meno guerrafondaia che esista. Alla fine Kim il suo obiettivo lo raggiungerà, Xi Jing Ping e Putin avranno il loro stato cuscinetto riconosciuto dalla comunità internazionale. L’opzione atomica è una banale percezione: vince chi fa credere di essere capace di premere per primo il pulsante, conscio di morire pure lui. Mai era stata un’opzione simile nella storia. Un tempo chi dichiarava la guerra aveva la certezza che sarebbero morti nemici e amici, ma non lui. Tutti i grandi condottieri, eroi o criminali, sono morti nel loro letto. Con l’atomica no. Appartengo a una generazione, quella nata negli anni Quaranta, che ha vissuto nei racconti le sconcezze della Seconda Guerra mondiale, da ragazzino, i racconti delle bombe di Hiroshima e di Nagasaki (la “Bomba” fu concepita per distruggere il nazismo, in realtà fu sganciata sul Giappone per ridurre le perdite di soldati americani: questo è bene non dimenticarlo mai). Da adolescente, avevo la preoccupazione di tutti: una guerra atomica Usa-Urss. Con la crisi di Cuba ci andammo vicini, poi la saggezza di John Kennedy e di Nikita Krusciov ebbe il sopravvento. Da allora capii che la “Bomba” era uno strumento di pace. Grazie a “Lei” sono vissuto in pace tutta la vita. Grazie a “Lei” un paese come Israele , è riuscito a sopravvivere. Grazie a “Lei” Cina e India hanno smesso di combattersi, così come il Pakistan, costruita la “bomba islamica”, si è salvato dalle grinfie dell’India. Equilibrio atomico è la risposta più seria al futuro dell’umanità. Se alla Corea del Nord applichiamo le logiche del business e del management, (per me più comprensibili) occorre allora considerare Kim III un imprenditore-manager di una “Ditta”, creata dal nonno e consolidata dal padre, ora in crisi. Kim ha messo a punto una vision, ha investito sul nucleare e al contempo sull’economia e sul mercato (sia ufficiale, sia tollerato, quest’ultimo in rapida crescita): ciò gli ha permesso di avere un Pil in crescita del 4 per cento e diventare un attore chiave, seppur sgradevole, dello scacchiere mondiale. Con lui la Corea del Nord si è confermato l’unico stato cuscinetto “attivo” fra Cina e Russia da un lato e l’America dall’altro, un ruolo strategico che lui sta cercando di massimizzare. La sua mission è semplice: permettere la sopravvivenza della “Fa- miglia Kim”, evitare di finire come Gheddafi o Mobutu, difendere l’enorme patrimonio accumulato. È riuscito in un’impresa impossibile in termini di comunicazione: fingendo di essere un pazzo, ha fatto passare il messaggio che lui è disposto a fare la prima mossa. Se si guarda in una prospettiva medio-lunga incombe la profezia che questo secolo sarà cinese. La globalizzazione sarà il grimaldello, non l’atomica. L’Occidente diventerà un follower per colpa di questo modello di capitalismo, non a causa di Kim.