Un mostro chiamato WhatsApp

Duecento anni fa, giorno più, giorno meno, la giovane Mary Shelley scriveva Frankenstein e dava vita, oltre che a un bellissimo romanzo (poi pubblicato nel 1818), a uno dei personaggi simbolo della modernità. Il Frankenstein, in due secoli di letture più o meno perspicaci, è stato interpretato nei modi più diversi e creativi. Apologo sulle potenzialità autodistruttive della scienza; parabola sul destino dell'uomo dopo l'abbandono della fede e della religione; metafora della nuova lotta di classe, che vede la borghesia (il dottore) creare il proletariato (il mostro), salvo poi pentirsene e pagarne le conseguenze: come tutte le storie apparentemente semplici e lineari, il moderno Prometeo (questo il sottotitolo) ha solleticato la fervida immaginazione degli esegeti e la loro tendenza a fornire interpretazioni "a chiave", anche di fronte all'evidenza di una storia che magari vorrebbe banalmente essere letta e goduta.

 

Dato che il Frankenstein ha smosso e continua a smuovere gli spiriti più immaginifici di allegoristi e metaforologi, anche io, che non sono nessuno ma che però una certa mania di vedere simboli ovunque ce l'ho, provo a dare il mio contributo. E dico che secondo me la giovane Shelley, quando ha scritto la sua storiaccia gotica sull'uomo artificiale – costruito, con le migliori intenzioni, assemblando pezzi anatomici raccattati a destra e manca – non poteva saperlo ma ha voluto anticipare il complesso, per certi versi drammatico, rapporto dell'uomo contemporaneo con i social network.

In fondo, che cosa sono le nostre, attuali, piattaforme virtuali di incontro e comunicazione se non delle creature mostruose, messe in piedi per lo più con finalità sanamente e sobriamente filantropiche, poi sfuggite di mano ai loro entusiasti ma ingenui fautori? A pensarci un attimo, davvero l'analogia non è estemporanea, ma sembra sostanziale. 

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