La vecchia e indifendibile Maturità

Come ogni anno, anche attorno a questo solstizio d’estate mi sono dedicato (e mi sto dedicando) agli esami di stato della scuola superiore, ancora affettuosamente definiti, a larga maggioranza, “Maturità”. Tutti i commissari con cui ho avuto occasione di parlare – interni, esterni, presidenti, vicepresidenti – organizzati nelle famigerate commissioni sono d’accordo: si tratta di un rito superato dal tempo, una specie di grande, inspiegabile e ingombrante totem, che nessuno (almeno fino ad ora) ha avuto il coraggio di abbattere ma che tutti guardano con circospezione mista a disillusione. Non è escluso che, se mai qualche leader politico prenderà l’iniziativa e azzannerà il corpo stanco ed emaciato della Maturità – magari ispirato da oscuri burocrati ostili all’esame, oggi acquartierati nelle segrete stanze del Ministero dell’Istruzione – allora si possa scatenare una caccia grossa alla bestia nera di milioni di studenti e docenti. Per il momento siamo fermi al borbottio, ai mugugni, ai si dice relativi all’ennesima, ventilata, riforma dell’esame che, d’altra parte, ne muterebbe la configurazione, senza alterarne la sostanza.

Nessuno, almeno fra quelli che possono ciò che vogliono, ha il coraggio di dire apertamente che il re è nudo. E che la Maturità va abolita. 

 

Io, sia chiaro, non voglio mica fare quello controcorrente, il conservatore illuminato che argina i venti e le tendenze del nuovismo avendo l’occhio sintonizzato sui tempi lunghi della storia e della tradizione. Potrei comporre una discreta compilation con i miei interventi, o semplicemente le personali esternazioni improvvisate, contro l’esame di stato, il suo sclerotismo burocratico, l’inutilità di una liturgia che in nove casi su dieci finisce per confermare, anche in termini di punteggio finale, ciò che gli studenti hanno mostrato di saper fare (o non fare) in tre, cinque, tredici anni di scuola precedenti. La stessa natura ibrida della Maturità, la sua conformazione anfibia (per cui ci sono i valutatori esterni ma anche quelli interni, le prove nazionali ma anche quelle specifiche per commissioni, i punti frutto dell’esame ma anche quelli maturati nel triennio conclusivo del percorso formativo), ecco, questa natura è un po’ il simbolo di un paese, il nostro, che vorrebbe ma non può, che “armiamoci e partite”, che dichiara l’esistenza di prove nazionali in teoria omogenee (e omogeneizzanti) in latitudine e longitudine, ma che poi, con antico vezzo cerchiobottista, strizza l’occhio alle “eccezioni”, alle “specificità”, ai “bisogni particolari”. 

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