Non so se, come diceva il filosofo Heidegger, nel linguaggio si abbia la rivelazione dell’essere. Sicuramente le mode espressive, le novità del lessico, le modificazioni del parlato e dello scritto sono sempre sintomatiche e rappresentative dello spirito del tempo, e ce la dicono lunga sul modo con il quale ci approcciamo al mondo, sia intellettualmente sia praticamente, più di un qualsiasi report sociologico.
Per questo motivo sarei tentato dal prendere sul serio il fatto che oggi nella comunicazione pubblica sia sempre più frequente, anche in contesti forbiti e apparentemente non sbrigativi, l’utilizzo della formula “eccetera eccetera”, che d’altra parte – tanto per essere chiari – ho l’abitudine di impiegare molto spesso io stesso nell’ambito di questa rubrica. Capita infatti di frequente che, all’interno di argomentazioni che avrebbero (o richiederebbero) una loro complessità e una loro estensione, relatori o dialoganti, dopo aver abbozzato un pensiero, o aver dato inizio ad un elenco, facciano uso compiaciuto della formuletta magica, che notoriamente nell’originale latino vuol dire “e altre cose”