Bocciato ma non fallito

Ogni epoca, si sa, ha i propri linguaggi dominanti, che sono tali non solo perché quantitativamente prevalenti e più frequenti rispetto agli altri, ma soprattutto perché tendono a influenzare, ora in modo esplicito ora in modo sotterraneo, tutti gli ambiti del discorso pubblico e privato. Nelle società tradizionali, compresa quella piccolo-borghese otto e primo-novecentesca, i linguaggi egemoni erano quelli della religione e della famiglia, che ti insegnavano a concepire l’esistenza come una lunga sequenza di sacrifici oppure a vedere la nazione, non a caso definita madrepatria, come qualcosa di sacro. Oggi i linguaggi dominanti, ho già avuto occasione di parlarne da queste colonne, sono quello dello sport, che si adatta perfettamente ad una società estremamente competitiva e bramosa di risultati come la nostra, e soprattutto quello dell’economia. Che presenta il vantaggio, non secondario e trascurato, di rendere (all’apparenza) quantificabile, quando non addirittura monetizzabile, qualsiasi anfratto dell’esistenza.

Checché se ne pensi e se ne dica, il fenomeno della trasfigurazione in chiave economica della comunicazione fra umani, almeno nel cosiddetto Occidente, non è tuttavia un maturo e recente prodotto della globalizzazione (anche se quest’ultima ha sicuramente favorito l’idea illusoria secondo la quale, come nelle pubblicità della MasterCard, quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza sono declinabili in termini di prezzo). La tendenza a parlare come broker anche se ci si deve rivolgere ai figli di cinque anni, per dirne una, è infatti più radicata nel tempo. Lo dimostra, ad esempio, un ambito linguistico e comunicativo apparentemente impermeabile ed estraneo alle logiche di mercato e di scambio come quello della Scuola. 

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