Il tempo di Giancarlo Tartari scomparso il 26 marzo scorso

Delle andate e dei ritorni

 

di Carlo Alberto Parmeggiani

Spavaldo figlio del secondo dopoguerra, irascibile, nervoso, segaligno, pronto alla battuta spiritosa e alla rissa, eppure generoso, battagliero, buono d’animo e di modi cordiali nei suoi giorni migliori, Giancarlo Tartari fu pure un affabulatore e sognatore in proprio e in comune, ossia in comune con coloro che fra gli anni Sessanta e metà anni Settanta frequentavano il Bar Armagni per poi, di lì a poco, trasmigrare chi al Caffè del Teatro, chi al Dorando e chi al Milano o al Roma. Giancarlo Tartari, detto “Taras” dagli amici che fin da ragazzini lo avevano onorato e temuto con quel nome dopo la visione del film Taras il Magnifico, con Yul Brinner e Tony Curtis, per somiglianza di cognome e di tratti fisiognomici che evocavano, già dai primi baffi, il leggendario nomade cosacco del racconto di Nikolaj Gogol, fu pure un paradigma, il Taras carpigiano, di parte della gioventù di allora. Lo fu sia per il coraggio, la forza, l’energia nervosa e sia per l’impeto rapido e veemente con il quale zittiva, a parole o con i fatti, il suo malcapitato e antipatico interlocutore che ne aveva messo in ombra la valentia e la figura, accendendone come uno zolfanello la reazione. Un tipo, insomma il giovane Giancarlo, il “Taras” nostrano, piuttosto fumantino, da tenerselo al fianco come amico e con il quale era meglio non accender discussioni o stare a cincischiare e a sottilizzare su di un punto a suo favore al gioco del biliardo, a “goriziana” o di una “bluffata” al poker, oppure a teresina o in altri giochi con le carte di cui era appassionato, tanto da lasciarci finanche una fortuna. Giancarlo Tartari, che se n’è andato all’inizio della primavera, è stato un personaggio, oggi si direbbe a tutto tondo, che nel linguaggio e nelle pose dei giovani di allora aveva introdotto un suo gergo, quasi un esergo, un suo spazio di movenze e linguistico privato, composto di una sua mistura di modi di dire e di fare che spesso venivano imitati e che ebbero fortuna finanche nella gioventù che venne dopo pur non conoscendone l’origine e nemmeno l’inventore. C’è chi ricorda che per qualche tempo, sul finire degli anni Sessanta, visse pure nella swinging London, mantenendosi con altri amici carpigiani in camere d’affitto o in qualche buco, praticando i mestieri più modesti che i giovani di allora non disdegnavano di fare, dai camerieri ai cuochi, dai lavapiatti ai commessi tutto fare, pur di mantenersi nella città dei loro sogni. Vale a dire nella Londra ciondolante dei capelli alla paggetto o sulle spalle, delle minigonne all’ombelico, delle inglesine che avevan meno puzza sotto il naso delle loro consorelle carpigiane, degli aspiranti fotografi alla Blow Up di Antonioni, dei colletti e sparati variopinti di camicia che lo Smilzo esponeva già in vetrina, delle Barrows che Marzi già vendeva al prezzo di una Maserati e dei pantaloni a costine millerighe di velluto anche d’estate che facevano tendenza e aristocrazia giovanile. Insomma quella dei Beatles, dei Rolling Stones, della Britannia Felix, di Trafalgar, Piccadilly e Soho, dove Taras era andato ad abitare, facendo il cameriere e godendosi le notti avventurose londinesi quando a Carpi i più s’erano già messi a letto almeno da sei ore. Quella Londra e quello swinging mitizzato, allora poco conosciuto se non dai dischi di vinile e colpi di televisione, del quale Taras, omen nomen, s’era fatto involontariamente esploratore e pure, al suo ritorno, narratore orale delle sue e altrui storie londinesi, con gli amici dei bar sotto il nostro lungo porticato, tal quale fosse stato un bardo, o un ardimentoso esploratore, o tal quale un leggendario condottiero che esce dalle porte del villaggio in cui è nato e dopo anni se ne torna indietro per dire quello che c’è al di là del fiume che ne limita i confini. Forse fu quello il suo periodo migliore, poi la maturità, i doveri, poi le disavventure, poi la malattia e le interminabili partite di cotecchio nei bar del centro o nei circoli privati e quindi un principio di vecchiaia che rese più evidente il suo buon cuore e una vena di malinconia forse innata. Una melancholia forse serenamente tollerata che tendeva tuttavia a mascherare sotto l’azzardo della sua vigorìa battagliera e il ricordo dell’inquieta operosità del giovane e non più giovane imprenditore carpigiano. 

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