“Ma quale Sessantotto… A Carpi ha inciso molto di più il 1958: un anno che penso rappresenti la vera svolta nella vita della città, quella che vide nascere il ceto medio degli artigiani e dei commercianti, un’intera comunità che aveva voglia di arricchirsi con il lavoro e che basava tutte le proprie speranze sulla proprietà. Quello sì che fu un momento importante. Il Sessantotto, invece, non ha segnato alcun progresso. Fu piuttosto l’espressione di un disagio, di difficoltà e contrasti. E lo vissero soprattutto i giovani, disprezzati, incompresi e derisi proprio da quel ceto medio di artigiani e commercianti che nel decennio precedente aveva raggiunto un buon livello di benessere».
Volevamo partire da questa testimonianza di Gianfranco Imbeni, che aveva trent’anni in un’epoca che attraversò divertendosi molto, per tracciare un possibile quadro del Sessantotto a Carpi, a cinquant’anni di distanza. La sua riflessione aiuta a togliere molto dell’aura mitica che aleggia intorno a quell’anno e che i media stanno già alimentando per la ricorrenza, soprattutto attraverso il recupero della sua colonna sonora, dalle canzoni politiche e di lotta (Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, il Nuovo Canzoniere italiano) al pop rock dei Rockes, dai Nomadi a Fabrizio De Andrè, dal cantautore simbolo Francesco Guccini al Mauro Lusini di “C’era un ragazzo che come me…”, la canzone, ripresa anche da Joan Baez, che schierò perfino un cantante melodico come Gianni Morandi sul fronte della lotta all’imperialismo americano.
È una pennellata, quella di Imbeni, e di pennellate è fatta questa rievocazione, perché un affresco complessivo, almeno per la città, non è possibile. Lasciamoli sullo sfondo, dunque, il Maggio francese e la primavera di Praga, il Vietnam, Che Guevara e i figli dei fiori, come pure la contestazione studentesca nelle Università e gli autunni caldi operai. A Carpi il Sessantotto arrivò come risacca ideologica, alimentata da quelli che, per dirla con un altro protagonista, Antonio Casarini, all’epoca disegnatore e progettista alla Lugli Carrelli elevatori, «… ebbero voglia di cavalcare il clima di rinnovamento che si avvertiva »: studenti, qualche sindacalista, molti impiegati privati o comunali e insegnanti con forte componente femminile e futura femminista, qualche operaio od operaia politicizzati. Una definizione onnicomprensiva potrebbe essere quella di “ceto terziario” che la città conosceva per la prima volta e per la prima volta pareva prender coscienza di sé. Cresciuto in parallelo con lo sviluppo economico, esprimeva nuovi bisogni e aspettative di una qualità diversa da quelle della maggioranza del corpo sociale impegnata nei laboratori, nelle fabbriche e fabbrichette e nel lavoro a domicilio. Le tracce che però lascerà il fenomeno non assumeranno mai forma politica, finendo per non essere prese sul serio in città dalla destra moderata e allarmando soprattutto il Partito comunista. «Ma solo per dabbenaggine – racconta ancora Imbeni –. Il Pci guardava con sospetto o addirittura irrideva ai giovani sedotti dalla contestazione, ma non riusciva a proporre loro niente di meglio. Basti dire che nell’ambiente comunista chiamavano “il Migliore” Rino Guaitoli, esattamente come Togliatti… Frustrati perché nel partito non avevano la stessa libertà di quei giovani di esprimersi individualmente, i comunisti di qui fecero soprattutto gli spioni, riferendo alle forze dell’ordine i loro sospetti sui singoli e su questo o quel gruppo. A loro il Sessantotto sfuggì completamente e non ebbero neppure l’accortezza di studiare quello che dal punto di vista sociale e politico era accaduto in città nel decennio precedente, l’avanzata di gente arricchita che si sentiva sollevata da tutti i problemi. E che considerava quei pochi intellettuali o aspiranti tali, quei contestatori come degli esaltati e dei nullafacenti. “Di’ che vadano a lavorare” era l’espressione che riassumeva l’opinione dei più».
Si capisce allora perché, richiesto di indicare una figura riassuntiva della Carpi di quel tempo, Imbeni non abbia dubbi: «Solferino Vecchi – afferma con sicurezza –. Sì, proprio lui, l’imprenditore fattosi dal nulla come tanti. Me lo vedo a bordo della sua Mercedes nell’atto di schiacciare contro il muro della Sinagoga di piazza Mazzini, a Modena, la Cinquecento di uno che gli aveva appena soffiato il parcheggio, salvo pagargli all’istante i danni. Lo so che c’entra nulla con il Sessantotto, ma c’entra molto con la civiltà della Carpi cresciuta nel decennio precedente». *** Il Pci sospettoso e accigliato dell’epoca, ancora raccolto intorno alla figura del sindaco Bruno Losi, ma in cui cominciava a farsi largo la generazione dei trenta/quarantenni post resistenziali guidata da Onorio Campedelli, affidò un certo ruolo di vigilanza e indirizzo delle irrequietudini giovanili e di quel nascente ceto terziario a Guido Guidi. Autodidatta di vaste letture, Guidi era sì un intellettuale organico nel senso gramsciano, ma con un certo compiacimento per la dissiden-rale e così neutralizzarne ogni pretesa eversiva dell’ordine politico regnante.