Storia - E' la corte con la pieve di Migliarina delimitata dal re longobardo Desiderio

L'antico cuore della Fantozza

di Fabrizio Stermieri

CARPI – E' tornata alla ribalta delle cronache dopo che l'ombra delle trivellazioni e delle prospezioni geologiche alla ricerca di idrocarburi si è allungata su di lei, ma l'area ex Fantozza (così è stata ribattezzata oggi), quella larga parte della bassa pianura emiliana che si estende fra Carpi, Novi, Novellara e Fabbrico, ha una storia più che millenaria che affonda le sue radici nell'alto medioevo, all'epoca dei re Longobardi i quali, secondo la leggenda, furono anche i fondatori di Carpi. L'antichissima pieve di Migliarina, oggi chiesa in attesa di essere ripristinata e restaurata dopo il sisma del 2012, vanta infatti una storia plurisecolare e si trova proprio al vertice dell'area interessata dalle polemiche fra un vasto fronte di protesta popolare e le mire di una società di trivellazione americana in cerca di nuovi giacimenti di gas o di petrolio da sfruttare. La “corte di Migiarina” venne ritagliata nel 765 (e poi ancora nel 772 della nostra era) dal re Longobardo Desiderio (l'ultimo dei re Longobardi, sconfitto dai Franchi di Carlo Magno) all'interno della più vasta selva regia che si estendeva per larga parte del modenese e del reggiano a nord della via Emilia e sino alle rive del Po. Una immensa riserva di caccia di esclusiva pertinenza del re in cui si alternavano in quei tempi bui e di abbandono, boschi, acquitrini, stagni e prati in cui abbondava cacciagione e fauna ittica. Pochi anni prima, nel 753, regnante re Astolfo (è lui il mitico fondatore di Carpi, quello che aveva perso il suo falcone preferito e lo aveva ritrovato su un carpine di casa nostra, per l'appunto) la principessa Ansa, moglie dell'allora duca del Friuli Desiderio, aveva fondato a Brescia un convento femminile (San Salvatore, poi Santa Giulia) destinato a grandi fortune. A questo convento, Desiderio, una volta diventato a sua volta re, aveva donato la “corte di Migliarina”: qualcosa come 4 mila iugeri di terra in gran parte selvatica ma in parte punteggiata da piccoli insediamenti rurali, campi coltivati, allevamenti allo stato brado di maiali e una riserva immensa di legname. Tradotto in misura agraria attuale, 16 mila biolche, 45 milioni di metri quadri di terreno. Un patrimonio che in parte era stato requisito dal re al suo funzionario di palazzo, il Gastaldo Cunimondo da Sirmione che aveva assassinato il Gasindo Maniperto che faceva parte del seguito della regina Ansa. Una donazione “avvelenata” sin dall'inizio, come ha ampiamente dimostrato Brunetto Carboni, studioso reggiano di cose altomedievali che ha raccontato a più riprese nei suoi saggi (l'ultimo, in ordine di tempo, dello scorso anno: “Alcune vicende feudali del Monastero di Santa Giulia esaminate da un osservatori privilegiato di area Reggiano-Modenese: la corte di Migliarina”) le vicende della corte di Migliarina e dello sviluppo della proprietà terriera nella bassa pianura compresa fra Crostolo, Tresinaro, Secchia e Panaro. Infatti le monache di Santa Giulia, da Brescia, poca presa avevano sulla troppo distante e difficilmente raggiungibile proprietà di Migliarina, condotta ordinariamente per mezzo di sacerdoti, di procuratori e di delegati che si trovavano a mal partito nel difendere i confini della vasta proprietà dalle pretese dei signorotti locali (i da Palude, i da Correggio, i da Frignano), tutti protesi ad espandere i propri possedimenti. “Molti contratti di affitto, di enfiteusi e di livello riguardanti parti della corte di Migliarina – sostiene lo studioso reggiano – stipulati fra il convento di Santa Giulia e le famiglie potenti della pianura e della montagna, in effetti regolarizzano e mascherano sotto termini legali vere e proprie appropriazioni indebite effettuate da questi stessi signori. Spesso la badessa di Santa Giulia deve fare ricorso alla giustizia locale, quella del vescovo di Reggio Emilia in particolare, per cercare di salvaguardare l'integrità della vastissima tenuta di Migliarina”.

Brunetto Carboni ha esplorato a fondo, fra l'altro, gli archivi reggiani: è a Reggio Emilia, infatti, non a Carpi o a Modena, che si trovano le tracce dell'antica storia della corte di Migliarina. Per due motivi: il primo è che gran parte della bassa ora modenese (quella esclusa dai possedimenti dell'abazia di Nonantola), in antico, dipendeva dal vescovo di Reggio; il secondo è dato dal fatto che, dopo secoli di sfruttamento della selva e dei terreni fra Reggiolo, Fossoli, Campagnola e Rio Saliceto, le buone suore di Santa Giulia si arresero e permutarono i loro possedimenti in Emilia con altri detenuti dall'abbazia di San Prospero di Reggio Emilia in Lombardia. Nel 1210, quindi quasi cinquecento anni dopo averli ricevuti in dono, i terreni dell'attuale area ex Fantozza ed altri ancora, passarono in mano reggiana e da Brescia vennero portati a Reggio Emilia tutti gli atti, i rogiti, le carte e gli scritti inerenti quella proprietà, in parte ancora conservati nell’archivio di Stato. E Migliarina? Dell'insediamento altomedievale e longobardo poco rimane: un dislivello circolare che si intravvede ancora sul piano di campagna intorno all'attuale chiesa frazionale e al cimitero, separati dalla strada che porta a Rio Saliceto, resto del fossato che circondava la corte. Le ricostruzioni di analoghi siti aiutano a comprendere meglio come poteva essere allora la corte: una cappella, poi allargata a chiesa di campagna, un edificio più grande destinato all'amministratore del fondo, alcuni altri edifici più piccoli per i contadini e per il ricovero degli animali. Il tutto circondato da un terrapieno e forse anche da una palizzata per difendere l'insediamento, più che dai nemici dalle piene dei fiumi e torrenti che in quell'epoca non avevano argine e che durante le piogge si allargavano nella campagna e nel bosco. In uno degli atti riportati da Brunetto Carboni, si parla infatti di un altro piccolo insediamento dell'area, con "il porto", che probabilmente era l'attracco per le barche a fondo piatto con cui era più facile spostarsi durante la stagione umida. Non mancavano le fortificazioni vere e proprie, come quella dichiarata di Fossoli, di cui non c'è più traccia, e che con ogni probabilità era poco più che una torre di guardia contornato di palizzata difensiva, con addossata l'abitazione del guardiano dei luoghi e dei suoi servi e lavoranti. I quali conducevano una vita piuttosto grama e fuori dal mondo. Chissà cosa penserebbero oggi, sapendo di aver attirato l'attenzione di una multinazionale che, sotto la terra che per anni essi hanno tenacemente coltivato, cerca oro nero ed energia fossile.

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