Le lavorazioni a basso costo e l'intervista di Piazza Pulita a Marco Marchi

I subfornitori di Carpi: ve lo avevamo detto

Ha fatto discutere nei giorni scorsi il servizio mandato in onda  qualche giorno fa da Piazza  Pulita sui distretti tessili   campani e che ha coinvolto   anche il marchio carpigiano   Liu•Jo. La trasmissione di   La7, com’è noto, aveva svolto   un’inchiesta nel nolano   da cui emergevano le condizioni   subumane in cui lavorano   gli operai bengalesi,   retribuiti per circa due euro   all’ora per giornate di lavoro   che arrivano fino a 12 ore.   Questi contoterzisti (alcuni   “scovati” negli scantinati dei palazzi)   lavorano per conto di aziende   che producono su licenza le collezioni   di noti brand di moda italiani.  

Tra questi, nel servizio, è emerso   Liu•Jo con alcune t-shirt della linea   uomo commissionate alla Corsair   di Nola che, in realtà, subappaltava   la produzione a laboratori non in   regola composti, appunto, da operai   sfruttati e sottopagati.   La dirigenza Corsair (impresa   molto nota a Carpi) non ha voluto   commentare, mentre Marco Marchi,   amministratore unico di Liu•Jo,   non si è sottratto alle incalzati domande   della giornalista Alessandra   Buccini. Ha ricordato che le forniture   affidate alla ditta campana non   superano i 1.500 capi, vale a dire lo   0,3 per cento delle produzioni Liu•Jo   e ha fatto presente come sia molto   difficile per il produttore finale avere   il controllo di tutti i passaggi della   filiera e garantirsi che i contoterzisti   operino secondo la legislazione   vigente.

“Ci fidiamo delle persone   a cui subappaltiamo la produzione   – ha ammesso Marchi –; da lì francamente   non è facile capire ciò che   poi accade (…). Le do la mia parola   che questa situazione per quanto   ci riguarda andrà immediatamente   risolta – ha annunciato l’imprenditore   dando a intendere che il rapporto   con la Corsair sarebbe stato   interrotto –, ma quanto a garantire   che queste cose non accadano più,   non posso farlo, come nessun altro.   Questa è la verità, cari telespettatori”.   Dopo la messa in onda dell’inchiesta,   la città si è idealmente   divisa in due “fazioni”, almeno da   quanto si legge sui social. C’è chi   ha apprezzato il realismo e la sincerità   di Marchi che, nonostante il   suo ruolo di imprenditore, non può   avere il controllo di tutti i tre milioni   e mezzo di capi che produce ogni   anno, per la maggior parte subappaltati   a ditte esterne. I detrattori   invece affermano che non si tratti   di realismo, bensì di disinteresse,   perché la filiera si può controllare   (attraverso, per esempio, i direttori   di produzione) e se non lo si   fa, significa che l’unico obiettivo è   spendere meno per realizzare più   profitto. La scusa, insomma, che i   rapporti con i laboratori contoterzisti   siano troppo “periferici” non   starebbe in piedi.  

Dal mondo della subfornitura   e del conterzismo carpigiano poi   si leva una sorta di “Ve lo avevamo   detto”. Ai laboratori locali vengono   affidate per lo più le campionature,   ma poi le produzioni con i grandi   numeri vengono commissionate a   ditte dei distretti di Barletta e Napoli,   dove i prezzi sono nettamente   inferiori. Perché? Semplice, perché   laggiù, spiegano i subfornitori carpigiani,   non viene rispettata alcuna   regola né in termini di condizioni di   lavoro, né tantomeno fiscali. “Non   è possibile che a noi chiedano il   Durc (documento unico di regolarità   contributiva) e il Detox, il protocollo   sulla salubrità dei tessuti e dei   materiali, e al Sud non lo facciano   – lamenta uno di loro –. Sembra che   ci siano due o tre Italie diverse”.   Marchi non è certo in grado di   cambiare il mondo, ma la vicenda   sottolinea le difficoltà dei subfornitori   locali che a questi livelli non   possono competere. E non soltanto   con i produttori del terzo mondo,   ma neppure con quelli di altri distretti   italiani.  

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